VUOTO E SEGNO –

In attesa di un ricongiungimento, il simbolo s’è fatto concrezione della distanza, un graffito sul muro della lontananza; incapacità di riconoscersi nello strappo che ogni unione comporta.

Il segno è una ferita nel vuoto; lo stesso segno della forma è una ferita. L’etimo di “signum”, infatti, ci riporta ad una sottrazione di materia, ad un recidere, ci riporta al verbo “sĕcere”, che significa tagliare, incidere. Il signum è, dunque, un intaglio[1] e significare è cre-are un vuoto, creare una cassa armonica in cui il significato, e il senso, possano risuonare. Nel segno gesto e forma si compenetrano: la materia, nella sua duttilità, che sia solida o addirittura liquida oppure gassosa, come l’aria, accoglie il solco, reale ed immaginario, di una mancanza che si fa segnale, indice e richiamo ad una presenza differita, tutta da ricostruire.

Il fatto è che l’uomo non riesce mai a sentirsi in simbiosi totale con la realtà – fuori e dentro di sé. Straniero a se stesso e alla natura, i lembi di questa ferita sono allora punti interrogativi; sono domande che, al di qua e al di là, in un dentro-fuori indefinito in cui lo spazio è divorato dal tempo, si consumano nella continua tensione d’un ricongiungimento che, nella coscienza, pare impossibile.

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Cezanne: il disegno come ferita della presenza, il discrimine analitico tra oggetto e soggetto; un discrimine ch’è κρίσις (krisis) al limite della follia. Il disegno come strumento per braccare la forma, la realtà infinitesimale della forma (e i colori per assediarla), per strappare al fenomeno tutta la carne del suo continuo svanire.

Mario Giacomelli, La figura e il bianco

“… Apposta parlo di segni. Li potrei fare anche sulla carta, nel mare, ma sarebbero tutti voluti, quindi tutti falsi. A me interessano i segni che fa l’uomo senza saperlo, ma senza far morire la terra. Solo allora hanno un significato per me, diventano emozione. In fondo fotografare è come scrivere: il paesaggio è pieno di segni, di simboli, di ferite, di cose nascoste. È un linguaggio sconosciuto che si comincia a leggere, a conoscere nel momento in cui si comincia ad amarlo, a fotografarlo. Così il segno viene a essere voce: chiarisce a me certe cose, per altri invece rimane una macchia.”

Affascinante, in Giacomelli, è la purezza erosiva ed eruttiva del bianco. Come se le figure lottassero contro la propria obliterazione. Come se la purezza della figura, cioè, non risiedesse in un appagamento dell’immagine che semplicemente si dona alla rappresentazione (sempre ammesso che esista una semplicità nel darsi) ma scorgesse la propria verità nello sfuggire a se stessa. La straziante poesia delle tracce di Giacomelli, la chiarezza del segno che eccede se stesso cancellandosi, richiama così il Verbo abolire di Mallarmé; è un richiamo alla poesia come luogo d’un altrove dimentico e al contempo luogo di estrema condensa-zione del reale.

Laddove la traccia manca il segno ecco che s’apre il varco, allora, al labirinto selvoso delle emozioni più profonde. Usare il mezzo tecnico in tutte le sue pos-sibilità metaforiche, con le sfocature, le sotto e le sovraesposizioni, è un modo per pungolare la materia, per fare in modo che essa si liberi dei propri fardelli, che si liberi e si libbri.

Roberto Nespola


[1] segno, lat. signum, propriamente ‘intaglio’ da un antico sĕce-re, classico secare; confronta dignus rispetto a decet, lignum  a lego, tignuma a tego, col normale passaggio di -ĕ- in -ĭ- davanti al gruppo -gn-. Giacomo Devoto, Dizionario etimologico.