Roussel e i marchingegni della scrittura

In Roussel quella della scrittura è una macchina (un macchinario che ha del teatral-barocco) e la “macchinosità” è ciò di cui consiste -magari non in toto- la sua estetica e la sua poetica; in Roussel la macchinosità diventa un elemento lirico: è qui che il surrealismo ha colto un potere eversivo, e cioè proprio nel non voler uscire dalla macchina della narrazione ma nel volerne costruire un’altra complementare a quella narrativa che possa fungere da contrappeso esistenziale.
Roussel parte, per i suoi lavori principali, da un preciso metodo da lui stesso rivelato e basato essenzialmente sull’anfibologia (tra l’altro il francese ne abbonda) e su vari tipi di giochi di parole. Il gioco linguistico dà il via ad una serie di frasi che si differenziano per scarti lessicali e fonologici e che lo scrittore orchestra e coordina secondo una struttura in gran parte preordinata. Il fulcro della scrittura di Roussel è dunque la lingua, il cui particolare trattamento genera un linguaggio in cui il rapporto tra significante e significato assume caratteristiche del tutto peculiari. Si tratta dell’applicazione di una sorta di filtro che faccia uscire fuori la natura allotropa del linguaggio, la sua essenza diversiva e allogena, con tutte le sue discrasie: la pervasività della costruzione ludica sfocia spesso nella follia (cosa che non poteva non affascinare i surrealisti).
Questa particolarissima costruzione e correlazione delle immagini narrative comporta uno svolgimento dell’azione che, pur seguendo un filo diegetico, si apre alla meraviglia dell’imprevisto, del bizzarro e del fortuito – è qui che si annida il poetico, nello scarto tra realtà ed assurdo.
Una focalizzazione estrema sulla lingua che non sfocia però nella pura astrazione del significante inteso e usato in senso assoluto: l’immagine (intesa come concrezione visiva) e la sua minuziosa descrizione accorrono sempre in aiuto a contestualizzare e a concretizzare narrativamente i rebus e le sciarade in cui s’impegna funambolicamente la sua scrittura – una vera e propria smania descrittiva e deittica.
Cosa che, in effetti, è tanto evidente nelle Impressioni quanto ingigantita in Locus Solus, testo in cui viene messa in moto una gigantesca macchina descrittiva (macchina di descrizioni di macchine) nella quale, di quando in quando, vengono incastonati elementi narrativi: micro racconti, perlopiù.
Le parole degli incastri verbali usati da Roussel, dunque, rimandano sempre a immagini, oggetti, gesti e un po’ più raramente ad azioni da inserire in una cornice narrativa che renda coesa e coerente la diegesi.
Sono sciarade e rebus in cui il linguaggio si fa sempre specchio di una narrazione; una narrazione in cui i fatti mostrano sempre e comunque una certa consequenzialità, anche se non perfettamente logica o totalmente razionale. Queste discrasie sono dovute al fatto che dietro ad ogni evento narrato, fotogramma-rebus, c’è lo spettro della lingua, con tutte le sue concatenazioni foniche assonanti e consonanti, con tutte le sue anfibologie. Solo che questi giochi fonici non rimangono all’interno del testo, completamente manifesti, ma fungono soltanto da scaturigine, rimangono solo tracce di un processo a monte, che non si manifesta mai dentro la scrittura (ma soltanto dietro); non ne fa parte integrante. De l’image avant toute chose.
È lo stesso Roussel, nello scritto autobiografico in cui rivela il suo metodo di scrittura (Come ho scritto alcuni dei miei libri), a dire: “Questo procedimento, in fondo, è apparentato alla rima. Nei due casi c’è creazione imprevista dovuta a combinazioni foniche.
È essenzialmente un procedimento poetico.
Ma bisogna saperlo adoperare. E come con le rime possono farsi buoni o cattivi versi, con questo procedimento si possono fare buone o cattive opere.
[…] Cioè traevo una serie di immagini dalla scomposizione di un testo qualsiasi, […]
Era del resto la caratteristica del procedimento a far sorgere una specie di equazione di fatti che si trattava di risolvere logicamente.”

Roberto Nespola


Nella prefazione a Teatro (Einaudi 1982) di Brunella Schisa si legge:

“Ecco in che cosa consiste il procédè di Roussel nel caso dei due romanzi e delle pièces: scelti dei vocaboli o dei sintagmi i cui significanti ammettono due significati, ci si basa sul senso “secondo” – cioè su quello che, dato il primo, solo in una fase successiva si è affacciato alla mente dell’autore- per immaginare una storia. […] Ma Roussel ricorre spesso anche alla dislocazione di particolari vocaboli, sotto i quali arriva a leggere molto liberamente parole che con essi presentano solo una vaga omofonia, e su queste si basa per inventare una vicenda.”

e ancora:
“D’altro canto non è certo al teatro poetico del primo Novecento che vanno le simpatie di Roussel. Non si può immaginare autore meno interessato alla creazione di atmosfere legate alla parola o al silenzio: tanto meno, a nuove concezioni della messinscena: più lontano, in altri termini, da Maeterlinck o da Claudel, da Copeau o da Baty. Non stupisce, sotto questo profilo, che le pièces di Roussel abbiano suscitato l’entusiasmo dei surrealisti già in un’epoca in cui l’autore non aveva ancora reso noto il suo procédé di composizione. Fin dagli anni delle burrascose prime della Stella in fronte e della Polvere di soli si è anzi voluto sottolineare l’esistenza di affinità e convergenze tra la poetica rousselliana e l’operare surrealista; e non si può negare che la trasgressione di determinati codici teatrali, la tendenza cioè a fare un teatro esteriormente anti-teatrale – parallela a quella che spinge Roussel a continuamente sconfinare da un genere letterario nell’altro, scrivendo per esempio un romanzo in versi, La Doublure, o escludendo qualsiasi forma di dialogo da Impressions d’Afrique -, si muove in una direzione che, grosso modo, coincide con quella che caratterizza negli stessi anni il disegno surrealista. Ma a un esame più attento risulta evidente che punti di partenza e d’arrivo sono diversissimi: in sede teorica, il rigore del procédè contrasta radicalmente con il libero associazionismo dei “cadavres exquis”; quanto agli esiti, se la scrittura automatica surrealista mira al trionfo del nonsense, o alla ricerca di casuali, imprevedibili invenzioni, il metodo di Roussel provoca, nella prassi compositiva, il costante riaffiorare di schemi, anche se dislocati o stravolti, della più consumata tradizione narrativa e teatrale.
All’interno di queste ripetizioni e rielaborazioni si delineano una serie di motivi, di incidenti, di espedienti retorici, di tic espressivi in cui propriamente consiste il mondo poetico di Russel. […]
Abbiamo dunque a che fare con una particolare specie di “mise en abyme”, forma ed espediente che, come è stato ripetutamente osservato, costituisce una delle strutture portanti dell’universo immaginario rousselliano.
Considerate sotto questo aspetto, le due pièces sono, come Impressions d’Afrique e Locus Solus, esercizi e discorsi fondamentalmente metalinguistici. Sulla loro rappresentabilità si possono certo avanzare dei dubbi; non però sulla loro intima teatralità, che anzi si riverbera fin dentro i meandri delle storie raccontate dai protagonisti. Naturalmente si tratta di un teatro che – al di là, o forse proprio in ragione dei suoi caratteri antiquati e arcaici – è per eccellenza “moderno”: cioè un teatro che si cerca, un teatro che si costituisce negandosi.”


Dalla prefazione di John Ashbery (La repubblica dei sogni – Dedicato a Raymond Roussel) in Impressioni d’Africa (Rizzoli 1982)

§ Quasi tutti ammetteranno che la tendenza all’astrazione è una delle più forti caratteristiche della letteratura del nostro tempo. Non è facile però isolare le motivazioni di questa tendenza. Forse si può intravvederle dietro la concisa formulazione della propria estetica che Raymond Roussel nelle sue memorie postume, Comment j’ai écrit certains des mes livres, ha concentrato in una dichiarazione di simpatia per una sorta di astrazione: 《Ho viaggiato molto. Particolarmente nel 1920-21 ho fatto il giro del mondo […] Da tutti questi viaggi non ho mai cavato niente per i miei libri. E mi pare che ciò meriti di essere segnalato, tanto sta lì a dimostrare chiaramente che per me l’immaginazione è tutto. Chez moi l’imagination est tout. 》
La virtù, nel non utilizzare la propria esperienza e nel ricorrere invece alla propria immaginazione, sta nella possibilità di purificare o soppiantare l’esistente e imperfetto ordine delle cose. L’immaginazione di per sé non ha meriti e può, tra l’altro, produrre scadenti opere d’arte. Ma è anche il veicolo per fuggire il mondo insoddisfacente nel quale viviamo, creando qualcosa che sembra non avere rapporto con esso. Uno dei sogni dell’arte moderna, da Mallarmé a Brancusi a Webern è la fondazione di un ordine indipendente di cose nel quale la natura dell’artista non sia riflessa: uno stato autonomo. Questo è uno dei sogni ricorrenti di Roussel in Impressions d’Afrique, libro che contiene descrizioni di mezzi automatici per produrre opere d’arte, […]. Roussel stesso usava un processo meccanico per scrivere Impressions d’Afrique cosicché egli si è subito distaccato dalla creatività spontanea ed imperfetta di un autore.”

§ “Nel 1920 Roussel cominciò a scrivere per il teatro. Aveva già preparato nel 1912 una versione teatrale di Impressions d’Afrique, che fulminò il pubblico parigino come un’enorme burla, sebben avesse attratto spettatori come Apollinaire, Duchamp e Picabia. Pensando che il mancato successo fosse dovuto alla insufficiente conoscenza dell’arte scenica, Roussel commissionò a Pierre Frondaie, un autore popolare specializzato nella riduzione teatrale di romanzi, una nuova versione teatrale di Impressions d’Afrique, anche se allo stesso tempo completava la riduzione di Locus Solus. Ma né la riduzione né il décor espressionista alla moda, né i costosi costumi di Paul Poiné, né il balletto della Gloria e il balletto sottomarino che occupavano una gran parte dello spettacolo riuscirono a salvare Locus Solus dalle risate del pubblico e dal malumore della critica. Roussel e la sua opera dallo strano titolo, nel giro di una notte, divennero bersaglio di sarcasmi. Tanto che ognuno aspettava con impaziente malizia il suo prossimo lavoro. Che fu L’Etoile au front […]. Imperterrito, Roussel sperava finalmente di ottenere il successo scrivendo direttamente un’opera teatrale piuttosto che adattando i suoi romanzi. Gli schiamazzi alla prima superarono ogni precedente. Le battute erano soffocate dai lazzi degli spettatori che gettavano monetine agli attori; questi […] vennero alla ribalta cominciando a litigare col pubblico. Questa volta però Roussel aveva i suoi partigiani: i surrealisti tra cui Breton, Aragon, Leiris, Eluard, Desnos e Masson che applaudivano selvaggiamente azzuffandosi con quelli che erano venuti a far cadere lo spettacolo. […] Questi tributi per quanto grati, erano ben lontani dalla universale adorazione pubblica cui Roussel si credeva destinato. Egli non si confuse mai molto coi surrealisti, anche se loro cercarono invano di stabilire relazioni amichevoli. Qualche volta li riceveva cortesemente, ma sembra proprio che non abbia apprezzato la loro opera: interrogato a proposito, rispose che la trovava un po’ oscura, 《un peu obscure》. La sua ultima opera La Poussière de Soleils fu rappresentata nel 1926. Anche questa volta le critiche furono ostili, come sempre, ma serpeggiava una nota di fatica: lo scherno cominciava a mostrare la corda. Scoraggiato, Roussel decise di abbandonare il teatro.
[…]

§ “Leiris dice: 《Roussel qui scopriva una delle piste più antiche e più battute della mente umana: la formazione dei miti a partire dalle parole. Ciò significa (come se avesse deciso di illustrare la teoria di Max Miller sui miti nati come una sorta di malattia del linguaggio) la trasposizione di quello che è all’inizio un semplice fatto di lingua in azione drammatica. 》Altrove Leiris sostiene che questi mezzi meccanici condussero Roussel a una fonte di mitologia nell’inconscio collettivo.