Gianni Schicchi di Puccini e L’heure espagnole di Ravel al Teatro dell’Opera di Roma

In questi giorni al Teatro dell’Opera di Roma sta andando in scena la seconda parte del progetto “Trittico ricomposto” che, “in collaborazione con Festival Puccini di Torre del Lago” e “in occasione del centenario della morte del compositore”, prevede, di stagione in stagione, la rappresentazione di uno dei pannelli pucciniani abbinato ad un altro capolavoro del 900. L’anno scorso Tabarro e Castello del Duca Barbablù, quest’anno Gianni Schicchi e L’heure espagnole di Maurice Ravel. Un progetto interessante solo per quanto riguarda la possibilità di confrontare la scrittura pucciniana in maniera diretta, cioè ascoltandola e nella stessa serata ossia in uno stesso allestimento, con quella di altre partiture novecentesche. Per il resto, la qualità delle intersezioni estetiche e poetiche che si vengono a creare è sempre molto relativa (e affidata alla fantasiosità del regista e dello spettatore).
Lo scopo è quello di mettere in evidenza la modernità di Puccini compositore, considerando -comunque- che quella della modernità è una questione assai spinosa e che, posta in questi termini, rilevi più che altro le carenze d’una concezione teatrale e musicale ancora ottocentesca e magari condita con qualche prodigio d’orchestrazione (sempre assai mirabile), come se Puccini avesse qualche orrendo peccato da scontare in questo modo. Io credo, invece, che Puccini vada preso così com’è: un abilissimo orchestratore, di grandissima sapienza musicale e istinto teatrale ma profondamente legato ad una tradizione che, pur se sicuramente illustre, nel secolo di Bartok, Debussy, Ravel, Schoenberg, Hindemith… comincia a non essere più al passo coi tempi (neanche se “imbellettata” di modernismi). In lui presente e passato convivono saldamente e si danno reciprocamente sostegno. Non a caso le ultime sue opere sono piene di autocitazioni.
In questo senso, il confronto tra Gianni Schicchi e L’heure espagnole è quantomai esemplare: da una parte, Ravel, con una scrittura vocale caratterizzata da una prosodia attenta alle inflessioni del parlato e del francese, che musica un testo teatrale senza riduzioni librettistiche (quasi nella sua interezza); dall’altra, Puccini, con un recitativo a tratti aspro e caricaturale ma sempre aperto alle sinuosità del melos e che non ha problemi, magari per far contenti editore, cantanti e pubblico, a cedere -anche se con parsimonia- alla romanza. Un’eguale rimarchevole differenza la troviamo, poi, nella poetica: mi pare che qui Puccini sia meno divisionista e guardi molto a Strauss e al Till Eulenspiegel in particolare mentre Ravel mi pare più vicino al realismo magico del Rossignol stravinskiano, con il tema della macchina e dell’automa: un realismo metafisico.
Come ho già detto, in Puccini tutto o quasi si riduce a puro colorismo (con tutta l’importanza drammaturgica e poetica che il colore può assumere) e la cosa più importante è quell’infallibile istinto teatrale per cui le novità del linguaggio musicale sono sempre strettamente legate all’efficacia narrativa e drammatica, all’impatto positivo con lo spettatore.
Tutt’altra cosa è la scrittura orchestrale di Ravel. Un pullulare, calibratissimo, di colori e gesti espressivi, che non solo seguono la vicenda commentandola minuziosamente ma ne moltiplicano il senso come in un prisma proiettandolo in uno spazio multiplo ed enigmatico. Molto spesso la capacità di condensazione, più ancora che di sintesi, di Ravel fa sì che la musica non solo segua il dramma di pari passo, mai pedissequamente però, ma che superi in velocità l’azione stessa, che la tenga stretta sul filo sospeso dell’aion. Ravel insomma, si diverte un mondo a moltiplicare continuamente i piani di lettura (a moltiplicare il temporale con l’a-temporale), attraverso raffinatissimi giochi ritmici, timbrici e melodici; pur in una compattissima visione d’insieme, lascia al miniare minimale e minuzioso vastità inconsulte. La metafisica degli oggetti tanto cara a Ravel è allora -qui- un Tempo al di fuori del tempo, che è ombra del tempo umano; un tempo in cui le persone sono ombre dei personaggi e i personaggi, contemporaneamente, dentro e fuori del proprio ruolo. Un tempo umano che continuamente sfugge. L'”eternitá in un’ora” di Blake, incarnata dai meccanismi impassibili ma anche pluriversi degli orologi (con i loro tempi sfasati). Una scrittura orchestrale la cui raffinatezza è palese fin dall’inizio, basti pensare ai tre bilancieri cui Ravel affida tre dinamiche differenti (p, pp e ppp), una scrittura piena di alchimie sonore che si insidiano nell’azione stagliandola in una dimensione di gioco assoluto, algido e dandy -forse- ma pregno di risonanze poetiche, filosofiche ed esistenziali.

Roberto Nespola