L’OGGETIVAZIONE ESISTENZIALE DELL’IO: “SENTENZA” E “I SONETTI DELL’APOCALISSE” – DITTICO DI PRIMO COLASANTI

Come scrisse Alberto Caeiro, eteronimo di Fernando Pessoa, ne “Il guardiano di greggi”, “C’è abbastanza metafisica nel non pensare a niente ” e questo sarebbe un ottimo sottotitolo, a mio avviso, per questa nuova silloge di Primo Colasanti. Il suo è un depensamento di beniana immemoria, tale per surplus di pensiero; un pensiero che, in quanto lirico, per forza di cose non può essere che soggettivo ma che vuole anche mostrarsi nel suo processo di oggettivazione esistenziale. Eh già: la poesia ama l’ossimoro, e lo ama con una intensità tale da far traboccare l’amore in odio.
Se nella raccolta precedente Colasanti ci ha mostrato la metamorfosi dell’“io” in “me”, qui il “me”, cioè la parte oggettiva che c’è in ogni contingenza dello stare al mondo, deve fare i conti con la metafisica del testo, con quella gabbia cioè che non permette al Sacro di scaturire in tutta la sua aperta naturalezza, benché Nietzsche vedesse in ogni ordinamento, dunque anche in quello della grammatica, una sorta di riflesso dell’ordine per eccellenza chiamato Dio. Ma Dio per Colasanti non è ordine, o per dire meglio quello che l’uomo schiacciato dai suoi limiti può percepire come ordine divino, bensì apocrifia (praticamente un sinonimo immaginario di “sacro”) e difatti in questo libro l’espressione del sacro è piuttosto implicita che esplicita. È come se il poeta, insomma, avvertisse il componimento poetico come una scatola troppo stretta, sia a livello formale che a livello linguistico. È come se il poeta avvertisse il verso come una sentenza nei confronti d’una realtà interiore che non si lascia domare, che non vuole e non può conoscere limiti; che anela all’oggettivo per trovare pace ma che, in realtà, non lo desidera affatto, totalmente presa dallo slancio vitale, benedetto e maledetto, del trovarsi a vivere. Ogni frase, ogni asserzione, è una sentenza, sembra dirci il titolo, un giudizio che inchioda il pensiero al detto ma la poesia è schiodare la realtà da se stessa e da questa negazione, cioè la negazione che la realtà sia se stessa, parte tutto uno scardinamento della sintassi e della costruzione delle immagini, una sorta di sommovimento tellurico della testualità che in un continuo ribaltamento interno si rifiuta di proporre i versi come segni scolpiti nel bianco marmoreo della pagina, come se si trattasse d’una stele funeraria.
In una sorta di lotta di Giacobbe con l’angelo, la poesia cerca di smontare l’assertività della frase abbondando, ma non solo, di participi e gerundi riflessivi, ossia di forme verbali implicite, spesso lasciate irrelate – in un’azione che si torce su se stessa e diventa criptica. Una poesia, questa, fatta di risonanze dimentiche di frasi altrui, tutte poste in esergo; una poesia che prende a specchio citazioni di altri testi, i più svariati, solo per testimoniare meglio l’eco d’un altrove e d’un altroquando.
Primo Colasanti ci propone stralci di vita e di pensiero vissuti ma da un punto di vista che vuole essere invivibile, o meglio, che del vissuto mostri l’atroce e il sublime invivibile.
Che sia sentenza, frase o detto (nelle accezioni che la parola “sentence” ha in inglese) il verso non ha mai una sola direzione: il poeta non è un direttore musicale che metta insieme i suoni del suo sentire ma un cacciatore di senso che sguinzaglia i suoi cani affamati, perdendosi nell’orizzonte.


Il libro si chiude con quella che potrebbe sembrare, per le ridotte dimensioni, una semplice appendice ma che in realtà è una vera e propria “anta” di dittico, in profonda simbiosi con la prima parte – pur con molte novità e differenze: “I sonetti dell’Apocalisse”.
Così nel mio parlar voglio esser aspro, ha scritto Dante come esordio delle sue rime petrose e di linguaggio aspro e petroso s’imbevono queste carnose meditazioni mistiche d’un’anima che s’interroga. Dante scrisse le sue petrose in reazione agli atti d’una crudele “donna petra”. Per Colasanti, invece, la “donna petra” è la crudezza d’una realtà, sociale ed esistenziale, che attorno a lui si svuota; un vuoto, il suo, che cerca luce nel diaspro dell’anima.
In questi testi la poesia diffrange il suo potere lirico, lo frantuma in schegge taglienti e carezze ferite. Qui le parole gravitano in se stesse, la pesantezza del cadenzare metrico e rimico viene sapientemente stornata da un profondo sperimentare linguistico e fonico che fa passare la struttura formale in secondo piano. È una lingua che si inventa e si reinventa nel suo stesso farsi, senza schemi precostituiti, a partire dal crogiolo di Jacopone e dallo stampo della forma sonetto; una lingua densa di assonanze e consonanze interne e fra le rime, di suoni marcati e d’elisioni, di lessico remoto e d’arcaismi tanto immaginari quanto chimerici. Altrettanto petrosa è la sintassi e la qualità e l’articolazione delle immagini. La poesia duecentesca di Jacopone viene qui presa a modello non per riesumare con compiacimento postmoderno un esotico relitto del passato ma per dare un intenso ancoraggio al presente ad un altrove spirituale che non ha né tempo né spazio ma che ha trovato in molta poesia religiosa medievale un formidabile esito.
In questi sonetti, insomma, v’è il massimo connubio tra forma ed espressione, lingua e sentire diventano un tutt’uno: ut pictura poesis , per dirla con Orazio, ma qui si dipinge anche con i suoni, si dipinge e si suona l’invisibile.

Roberto Nespola


Tre poesie da I SONETTI DELL’APOCALISSE di Primo Colasanti

De grembo o lembo: NEL sole – poi cosa?
De tutto se oscura e de finto splende,
la sola rimasta se stessa Rosa:
del perché mancato, finché calende,

mentre l’anima Mea non riposa,
ma Ode e Muore ‘n Codesto dì che fende
da Padron macchinoso, ove la briosa,
di Là ragion, nessun beato Le rende …

Quel Verde: or d’un sentito, d’un voltato,
d’un cor pallido, deh, senza ‘n Maggio:
muro cieco, freddo, da poco nato!

Quel Verde: che M’affrescò vagabondo,
tenendo stretto ‘n perlifero raggio
col Sacrifizio pur pe’ ‘n vile Mondo!

***

Parea tempʼ aʼ Sé: e, riarso, Lo rimavo …
Celeste mai stato: oh, brama ʼncombeva!
L’Albero fatato per Me: che stavo
scritto sullo bivio marcato d’Eva!

Santo, le novelle stelle miravo:
stupendoMi bello al momento d’Era
d’anti – schema, final Poesia ʼn teschio, Avo
d’avi non più mortali, or su bea, vera

passion quieta! Ah, fin della Malizia
funesta! … Nudo ragionato: Creazione
senz’altra creazione che poi me vizia:

come già provato! … Frattanto, saggio,
pastor, appare ʼl cor che non più pone
quel su’ illustre tocco: ʼna volta ostaggio!

***

Stamane, dolur nelle foglie: ferme
come nascitur de No’ Pietà!… E inerme,
se fa lo respiro cotidiano
d’ogna Donna e Omo, pur se No Cristiano.

Deh, solita Morte de Luglio figlio
cusì lento, sognator, soave giglio,
che S’ennamor del primo gesto ‘gnoto
nel lodato Dì al Meo saper devoto!

‘N’altra sera de ‘niustizia appellata:
lo refatto Cor batte nudo e ‘nfante
pe’ la breve Lei, alquanto sfacciata:

colma de vino nelli diavoli occhi
de natura libera, stramba, astante!
Tempo, quanta trestezza nei rintocchi …