I nove cervi fatati di Béla Bartók

Béla Bartók (1881 – 1945) – Cantata Profana (I nove cervi fatati), Sz. 94, BB 100 (1930)

Testo


C’era un vecchio babbo
che aveva nove figli
belli come il sole
da lui stesso generati,
a nessun mestiere educati:
al raccolto, al seminare,
i cavalli a guidare;
ma per monti e valli
a cacciare il cervo,
eh, oh! nell’oscuro bosco
la preda a stanare, eh, oh!
i nove fratelli nel bosco
vanno a cacciare
i nove bei ragazzi partono
nell’oscuro bosco vanno
la preda a stanare.
Cacciaron tanto a lungo
nel bosco insieme,
sino a sera tutti insieme
e giunsero ad un ponte
i cacciatori insieme
e là videro insieme
l’orme d’un cervo magico
e per seguire l’orme
smarrirono la strada
e nell’oscuro bosco i fratelli
furono trasformati in cervi.
Diventati cervi i fratelli
vagan per il tetro bosco.
Ma non sopportò l’attesa il padre,
imbracciò lo schioppo
e andò alla ricerca dei suoi nove figli:
e trovò nel bosco il ponte,
là sul ponte trovò l’orme,
seguì l’orme di quel magico cervo;
giunse ad una fresca fonte
ove i nove cervi stavan tutti insieme.
Imbracciò lo schioppo,
si piegò su un ginocchio
e sul più bello della mandria la mira prese.
Ah! Ma dei cervi il più grande,
il figlio prediletto,
in tal modo gli rispose:
“Caro babbo nostro, ah!
non mirar sui figli
che t’infilzeremo con le corna aguzze
e di prato in prato palleggiarti dovremo,
e di monte in monte,
di bosco in bosco,
di rupe in rupe,
sovra taglienti, aguzze rocce
che faran di te strazio,
un cencio ti ridurranno,
sanguinoso cencio,
caro babbo nostro!”.
Ascoltò tremando il padre lor parole,
aprì le braccia ed implorò i suoi figlioli:
“Figli del mio cuore,
figli del mio sangue,
con me venite,
ritornate dalla vostra cara mamma!”.
“Noi con te venir, .
seguirti a casa!”.
“Dalla vostra mamma con me venite,
che si strugge in pianto nell’attesa;
le lampade ardon, è pronta la mensa
i calici son colmi di vino d’oro!”.
Ma il maggior dei nove, il figliolo diletto
tentennando il capo gli rispose questo:
“Caro amato babbo, caro babbo nostro,
torna dalla madre nostra
torna presto dalla nostra cara mamma,
noi non torniam, noi non possiam tornar, no, no!
Dalla porta più non passan
le ornate nostre teste
e il nostro corpo snello
ha bisogno del fogliame verde”.
“Or dite, perché non ritornate?”.
“Non la cenere del focolar,
il muschio occorre al nostro pie’
ed al calice non più, beviamo
ma a quella fonte sol”.
C’era un vecchio babbo,
che aveva nove bei figliuoli,
svelti e belli, nove figli
belli come il sol.
A nessun mestiere educati eran,
ma solo a cacciare;
cacciarono tanto
finché diventarono cervi
nel gran bosco tutti insiem.
Le loro teste per la porta
non possono passare,
ma solo nelle valli;
il loro corpo ha bisogno del fogliame sol,
e non la cenere ma il muschio molle
sol occorre al loro piede;
e non bevono più nel calice
ma solo alla sorgente
a quella chiara fonte.

(Versione a cura di Domenico de’ Paoli e Bonaventura Somma)

***

Questa cantata profana, “I nove cervi fatati”, è un chiaro esempio dell’altissimo valore etico ed umano della musica di Bartók. Il testo è tratto dal folklore rumeno e più precisamente, da una colinda, un canto popolare connesso alle cerimonie pagane per la celebrazione del solstizio d’inverno. La musica è imbevuta di movenze, armonie, ritmi, cadenze e sapori della musica popolare senza mai citare direttamente alcun canto specifico e rimanendo profondamente bartokiana.

Nella colinda si narra la vicenda di nove giovani cacciatori che, inseguendo un cervo magico nel bosco, dopo aver attraversato un ponte, si perdono nella selva e vengono tramutati essi stessi in cervi. Il padre, non vedendoli tornare, esce a cercarli nel bosco. Li trova e li riconosce: il figlio maggiore, pur avendo sembianza e corpo di cervo, mantiene la propria voce e gli si rivolge con amore e al contempo con minacce. Il padre supplica i propri figli di far ritorno alla famiglia ma essi si rifiutano nettamente. Sentono di appartenere totalmente al bosco.

Al di là del forte significato simbolico, intemporale, questo lavoro ne ha uno anche più specificatamente storico, sociale e politico. Il critico musicale Aladàr Tóth scorse in quest’opera l’espressione d’un’indignazione civile contro il regime di Horthy, salito al potere dopo la sconfitta della rivoluzione (alla quale Bartók, fra l’altro, aveva aderito): «Questa musica titanica è la ‘canzone dei lupi’ nell’epoca della servilità. … con il suo umanesimo cocentemente doloroso annuncia un messaggio: la solitudine della libertà perenne».

Molto interessanti sono i riferimenti non solo alla struttura della cantata classica ma anche e soprattutto, con il doppio coro, i solisti e la grande orchestra, a quella della passione bachiana. L’incipit in tempo lento ternario, con i temi a canone e con le sue movenze cromatiche, rievoca in maniera piuttosto chiara la Passione secondo Matteo di Bach. E il connubio tra la passione del Cristo e la metamorfosi di questi giovani è veramente molto suggestivo: pensare ad un possibile legame metaforico.

Magnificamente il testo, e la musica di Bartok, ci riportano a quel senso di appartenenza alle radici più oscure e profonde della libertà, che è una sorta d’oblio ferino, fiero e appagante, espressione d’un sentimento di totalità con la Natura tutta e con tutte le potenze della Vita, come se nell’animale ci fosse, dunque, una simbiosi totale e totalizzante con la natura, un’armonia che all’uomo è sempre sfuggita.

Il tema della discrasia tra vita umana e natura è un tema antichissimo. Basti pensare al Bruta animalia ratione uti(Se gli animali siano dotati di ragione) di Plutarco. In questo libro l’autore rielabora il noto episodio omerico in cui Circe tramuta in bestie i malcapitati compagni di Odisseo giunti in avanscoperta presso la sua dimora. Nella riscrittura plutarchiana, la maga, alla richiesta d’Ulisse di rendere di nuovo umani i propri amici, reagisce dando prima la parola (ma non il corpo) a Grillo, uno dei succubi del suo potere metamorfico, il quale si rifiuta di tornare uomo e recita un vero e proprio panegirico della vita animale superiore, secondo lui, a quella umana nel coraggio, nella misura e nella mancanza di violenza gratuita.

Erano d’altronde, quelli di questa cantata, tempi in cui molti artisti cercavano strade alternative ai falsi miti della società (in questo caso specifico la famiglia) e della violenza (la caccia).

Roberto Nespola