IN UN ANTRO DI LEGAMI SPEZZATI

Recensione del film “Quarant’anni dopo” di Primo Colasanti

 

 

Intenso ritratto di una famiglia piccolo-borghese. Tre generazioni a confronto nel bel mezzo d’una confusionaria e solipsistica realtà sociale, laddove ognuno arranca come può, cercando di affrontare i propri vuoti e d’attraversare una crisi ch’è soprattutto crisi esistenziale.

Valori e degrado umano, in questo film, sacro e vuoto, si confrontano e si domandano. Il loro campo di battaglia è la vita, con tutte le sue difficoltà e le sue incomprensioni, con tutte le sue illusioni e disillusioni amarissime.

Un confronto generazionale dunque, ma innanzitutto un confronto tra figli e padri, tra giovani e padri. Giovani che arrancano nel vuoto di qualsiasi fondamento, nella più completa assenza di futuro; giovani in totale abbandono di sé ed incapaci d’un qualsiasi orientamento nella vita; giovani incapaci di crescere ed ex giovani ormai adulti e non ancora cresciuti; giovani in balia d’un infantilismo incartapecorito e d’un sistema di valori di plastica che lo alimenta: la società dei consumi; giovani confusi preda di false ideologie da fumetto; giovani in balia di una selva di mancanze, un vero e proprio labirinto che appare senza vie d’entrata né d’uscita, un loop, un gorgo d’ambiguità mediatiche che vuole risucchiarli nel vuoto nichilistico d’un mondo mercificato. E tutto mentre il mondo dei padri si sgretola sempre di più, inesorabilmente.

Padri e figli: due mondi non più giustamente distanti, di quella distanza che favorisce una buona dialettica, quella della crescita e della maturazione esistenziale, ma due mondi appiattiti entrambi contro se stessi, non più lontani ma indifferenti l’uno all’altro. Il mondo dei figli, schiacciato da un contesto sociale che soffoca in loro qualsiasi orizzonte e quello dei padri svilito da un’infinita sequela di errori (egoistici e non). Un confronto, quello tra padri e figli, che una società ormai allo sbando relega sempre di più ai confini d’una farsa insulsa.

Eterni figli, affoghiamo nel liquido amniotico, chiusi nella placenta di una società che ci vorrebbe infanti, senza parola e senza volontà – schiavi dei consigli per gli acquisti – mentre lo Stato è sempre più, letteralmente, un passato in cancrena che non lascia spazio al futuro. Questo è quello che sembra raccontarci il regista Primo Colasanti in questo suo nuovo film, un’altra appassionata indagine sociale sulla crisi della modernità, che questa volta incontra anche il tema dello straniero, dell’Ospite: il sacro che tanto illumina quanto scompiglia, che mette alla prova. L’ambiente forse un poco asfittico della famiglia italiana incontra ora il Diverso e le gelosie e le incomprensioni dei legami di sangue si ritrovano a scontrarsi con la sacralità d’un legame schiettamente umano, legame  cui forse siamo sempre meno abituati; un tipo di legame che solo coloro che vengono da lontano, da realtà altre, possono farci riscoprire. Certo è che il sacro porta anche molti problemi e ci pone di fronte alla necessità di rimetterci in discussione, necessità che solo una famiglia unita può affrontare (e questo è l’ombroso spiraglio di luce che si apre nel finale).

Seguendo una delicata ma strenua traccia narrativa in cui le cose dette e quelle strategicamente lasciate in ombra cercano di armonizzarsi, tutte le questioni, le idee e le visioni di questo regista si trovano a volte ad armonizzarsi e a volte a collidere ma, comunque e caparbiamente, cercano sempre una consistenza fisica nella corporeità degli spazi, degli oggetti, dei gesti e soprattutto degli attori; cercano caparbiamente verità lirica nell’amore per la terra e per il corpo. Si tratta senza dubbio d’una visione assolutamente non edulcorata della realtà cui non mancano però occasioni di riscatto metafisico: indagare nei gesti quotidiani, rovistare amorosamente nei tempi muti, lanciare lo sguardo nella periferia di ciò che accade più che nell’avvenimento narrativo stesso per far gravitare le immagini attorno a delle assenze e senza la benché minima voglia di romanzare, sono un tentativo del regista di mettere in campo l’onnipresenza del sacro, di quella dimensione spirituale che è profondamente legata al corpo e alla terra e che non ci abbandona mai, anche e soprattutto quando noi abbandoniamo noi stessi. Nonostante tutto, è dunque sempre il modello pasoliniano a spuntarla. Un modello che questo regista non ha mai abbandonato.

 

Roberto Nespola


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Il trailer del film

https://www.youtube.com/watch?v=3DB4PlHyP8w