LA DAMNATION DE FAUST DI HECTOR BERLIOZ

IN OCCASIONE DELL’APERTURA DELLA STAGIONE 2017-2018 DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA

John Martin – The Great Day of His Wrath – dal trittico L’ultimo giudizio
John Martin, Pandemonium (dalle illustrazioni per Paradise lost di John Milton)

«Tout passe, l’espace et le temps absorbent beauté, jeunesse, amour, gloire et génie; la vie humaine n’est rien, la morte pas davantage; les mondes eux-mêmes naissent et meurent comme nous, tout n’est rien […] Aimez ou haïssez, jouissez ou souffrez, admirez ou insultez, vivez ou mourez, qu’importe tout ! Il n’y a ni grand, ni petit, ni beau, ni laid : l’infini est indifférent, l’indifférence est infinie» [1]. Questo passo di Hector Berlioz, tratto da “Les grotesques de la musique”, potrebbe essere benissimo una battuta del suo Faust. In effetti, la musica di Berlioz è un corpo a corpo con il suono; ossimorica nel suo voler far sanguinare l’invisibile, nel suo voler dare traccia ideale dell’evanescente; nel continuo ed inesausto dibattersi tra tutto e nulla, simmetria e dissimmetria (ordine e caos, direi). In questo mi fa pensare un poco alla lotta tra segno e forma nella pittura di Cézanne. La battaglia in Berlioz tra ideale e corporale, allora, tra vacuità e pienezza, assume in quest’opera un valore simbolico e spirituale: un valore teatrale e tragico.
L’impuro visionario e l’amore per la concretezza del suono, dominano questa musica. Una musica che vuole incidere, fin quasi a ferire, lo spazio. Spazio inteso come architettura sonora ma anche come spazio drammatico. Uno spazio solitario e chimerico, quello della Damnation de Faust, perso nell’abrupto d’emozioni e passioni contrastanti.
In queste recite al Teatro dell’Opera di Roma, Daniele Gatti è riuscito a dare spessore e compattezza musicale a quest’insieme un poco disconnesso di personaggi più figure simboliche che altro e situazioni quasi disparate, senza rinunciare all’enorme ricchezza di soluzioni timbriche della partitura. Tutto reso in maniera tersa e pienamente teatrale. Il suono dell’orchestra, il canto, le voci del coro, tutto scorre con una fluidità incisiva che coglie sempre nel segno.

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INVOCATION A LA NATURE
FAUST
Nature immense, impénétrable et fière,
Toi seule donnes trève a mon ennui sans fin.
Sur ton sein tout-puissant je sens moins ma misère,
Je retrouve ma force, et je crois vivre enfin.
Oui, souffiez, ouragans,
Criez, forêts profondes!
Croulez, rochers, torrents! précipitez vos ondes!
A vos bruits souverains ma voix aime a s’unir.
Forêts, rochers, torrents, je vous adore! mondes
Qui scintillez, vers vous s’élance le désir
D’un coeur trop vaste et d’une ame altérée
D’un bonheur qui la fuit. [2]

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Per qualificare Berlioz occorrerebbe un aggettivo che stesse a “musicale”, come “pittoresco” sta a “pittorico” e “letterario” a “letterato”. Giacché il pittore di pitture pittoresche e il letterato letterario non si spingono, illecitamente, al di là della pittura e delle lettere. Ma prendono coscienza, nel loro stile, di determinate possibilità particolarmente espressive della loro tecnica, e si compiacciono di sfruttarle a fondo, anche a rischio di qualche estremismo, di qualche manierismo.

Fred Golbeck, Storia della musica, 1963

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«Isolato in Francia, Berlioz rompe con questa tradizione e resuscita l’armonia. Sorto in seno a una scuola francese infrollita, nutrito solo d’un’armonia fiacca e monotona […], fu quasi costretto a ricreare dal nulla. Nelle classi del Conservatorio è talora oggetto di scherno. Buoni scolari, corrette mediocrità, ridono di quelli che chiamano i suoi· “bassi sbagliati”. È facile a dirsi. Provatevi, allora, a mettere, sotto questa o quella battuta d’una sua melodia, quello che credete sia il basso giusto – un accordo di terza e sesta, per esempio, al posto della tonica, che vi sembra “goffa”. Vedrete che banalità! Non credete forse che, se avesse voluto, sarebbe ben stato capace di pensare a quest’accordo di terza e sesta meglio fatto per compiacere alle vostre abitudini di scolari? Se non l’ha fatto, sapeva quel che si faceva. […] Riassumiamo: se Berlioz non appare sempre impeccabile, se non ha la nativa sicurezza d’un Mozart o d’un Claude Debussy […], sarebbe un delitto pretendere che non sia un armonista. Miracolo, al contrario, che abbia inventato tanto, quasi da solo; e, per quel che riguarda la questione della scelta degli accordi e delle concatenazioni, certo non la risolveremo con le regole della scuola. Perché le sue opere vanno ascoltate in orchestra, non giudicate al pianoforte; intervengono allora fattori di timbro, di tessiture e di scrittura contrappuntistica; un pezzo come la Chasse dei Troyens, per esempio, risulta affatto differente nella riduzione pianistica e all’esecuzione strumentale.»

Charles Koechlin, Trattato di armonia, Parigi 1925

Litografia di Hector Dumas per la centesima rappresentazione de La damnation de Faust diretta da Edouard Colonne, 11 dicembre 1895

[1] Tutto passa, lo spazio e il tempo assorbono bellezza, giovinezza, amore, gloria e genio; la vita umana non è niente, la morte tantomeno; gli stessi mondi nascono e muoiono come noi, tutto è niente […] Che amiate o odiate, che gioiate o soffriate, che ammiriate o insultiate, che viviate o moriate, nulla importa! Non esiste grande né piccolo, né bello, né brutto: l’infinito è indifferente, l’indifferenza è infinita.

[2] Natura immensa, impenetrabile e fiera,
Tu sola dai tregua alla mia noia infinita.
Sul tuo forte seno avverto di meno la mia miseria,
ritrovo il mio coraggio, credo di vivere ancora.
Soffiate uragani,
gridate foreste profonde!
Torrenti scorrete violentemente con le onde a precipizio!
La mia voce ama unirsi ai vostri grandi rumori.
foreste, rocce, torrenti, io vi adoro! Mondi
che scintillate, verso di voi si slancia
il desiderio di un cuore troppo grande
e di un’ammo agitata da una felicità irraggiungibile.