Appunti sul Faust di Aleksandr Sokurov

Questo quarto capitolo della tetralogia sul potere, pur con qualche eccentricità e stravaganza di troppo, desta subito agli occhi un fascino di profondità, d’acutezza di sguardo.

La cosa che più lascia scossi è che il cielo è sfiorato soltanto all’abbrivio, la sua rappresentazione mistica, la preghiera, solo un baluginio lontano. In un tortuoso zigzag -quello d’un cartiglio che si stacca da una sorta di vessillo celeste- la traccia delle immagini giunge, come lo zoom del celebre sonetto di Laforgue (Apothéose da “Le sanglot de la terre”), attraverso la visione area della città, fino all’interno di una casa e successivamente, fino al primo piano dei genitali maschili d’un cadavere: il corpo morto e squartato dal quale Faust vorrebbe cavare il significato della vita. Si parla di Dio, dell’incipit della Bibbia ma la religione e il senso del sacro rimangono sempre a distanza. Il corpo tutto inventato di Mefistofele, una poltiglia che non desta orrore ma scherno quasi ilare, è il fulcro d’un mondo e d’una umanità votata al difforme.
Il cielo rimane, insomma, per tutto il film, una “mera” presentia in absentia con il dubbio che il male possa esistere necessariamente senza il bene. “Il bene non esiste ma il male sì che esiste” afferma Wagner -in questo film ma non ovviamente in Goethe-, l’allievo puro folle di Faust. In effetti, la trama del male s’intrufola subdolamente e oscuramente in ogni crepa del film come la coda di Mefistofele che si vede spuntare dalla grata all’interno del confessionale dove Margherita si è seduta nel conversare con Faust in chiesa. In effetti, il personaggio di Mefistofele che qui Sokurov ha voluto incarnare in un usuraio, un losco individuo che prende in pegno degli oggetti in cambio di danaro, è quello meglio riuscito.

Lo spazio della visione si fa sempre più allucinato. Man mano che ci avviciniamo dagli abissi della perdizione -qui descritta quasi in tralice- all’astrattezza delle sfere celesti, se è possibile tracciare un cammino parallelo colla immensità dell’opera di Goethe, la surrealtà carnale di questo regista s’intensifica sempre più allontanandosi dal tracciato diegetico goethiano per cercarvi una profondità diversa e, forse, più attuale.

E’ come se Faust, nella ricerca d’un senso, si perdesse nel labirinto dei suoi doppi: Wagner, l’usuraio (Mefistofele), l’homunculus e, forse, persino Margherita. Come se fosse condannato ad errare attraverso i riflessi del proprio io.
La tematica dell’ego infatti, è qui molto forte e la stessa Margherita, come il resto dei personaggi, sfuma decisamente in spessore nei confronti della coppia Faust- Mephisto. L’ultima immagine che si vede di lei è il primo piano dei suoi genitali, in parallelo coll’inizio.

V’è sempre un che di grottesco che screzia d’inverosimile alcuni punti della narrazione e dei dialoghi (forse una cattiva traduzione dal tedesco?)

Credo che Sokurov abbia voluto riannodare in una trama diversa e altra l’intreccio di simboli spirituali ed esistenziali dell’opera di Goethe; destabilizzare nel principio dell’azione (“in principio era l’azione”) qualsiasi senso possibile. Anche i significati così come l’uomo Faust, archetipo d’ogni uomo, divengono erranti; destinati all’erranza.

Così, ogni destino rimane in sospeso: quello della madre di Margherita che può risvegliarsi o meno; quello di Gretchen che forse “si perderà”; quello del diavolo sepolto con compiacimento masochistico da Faust sotto un cumulo di pietre.

Affascinante infine, dal punto di vista di possibili richiami pittorici, la stravaganza d’un 800 che si mescola a Brueghel e Bosch.

 

Roberto Nespola

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