rhêma

(pulvisivecinis)

Attraverso la bocca del deserto, di lembo in lembo, di confine in confine, ricordare la dimensione del velo: il chiodo sottile che disordina la mia ombra (…”la mia ombra è una lama smunta al posto della fame, la tonda chiave dell’apparire per somigliare”…), ma il coltello, smussato e murato, non è un simbolo della pelle, non è un faro in cui annegare le radici del capestro e se la memoria fosse un pane alla giornata -soltanto se-, un fantasma del distacco dentro il libro dei legami, allora le domande non misurerebbero più la bile d’una distanza e il piede, ormai specchio, chiederebbe aria al cuore, bilanciandolo d’un respiro che si spenge – opaco.
Chiamare tempo gli occhi della vipera per non passare al fiore, un buco nel fumo dell’eremita, oasi d’alba senza luce, proseguire nel sonno del luogo, induce al bianco d’una carne in gabbia; fa indugiare il volto in un altro bulbo del tempo.
Eppure questo prato di spine, per un’osmosi di scarni scarti, non vede rondini – giacché le include. Scrive la carne, sulle foglie, il greto del fiume; scrive che il corpo non è spa-zio – beve un’interferenza di musica e poi si sgretola. Lo percorro, forse, questo prato, come fosse la scorza d’un’aurora, una forma malata di cantare – ricordare, sentire e dissolvere; ricordare le carezze della pioggia, sentire che il pianto è un ago fetale, dissolvere il buco dell’odio dal di dentro: “Sono uno spettro, nessuna fiera credo a me aliena”. Nessun angelo in sbarre, nessun vetro. Lo percorro senza nuvole né cielo, senza luna né sole, nel mistero della materia, lo descrivo madre e padre risuonare la chimica del vuoto, consumare il bilico del pensiero per cambiare il centro della mia infanzia in un sogno in forma d’uovo: una corda immersa nell’acqua; lo percorro per scoprire che l’a-ria è una prigione di spasmi, anche, un muro aperto a vanvera nella controluce del veleno; lo descrivo per lucidare i suoni d’una statua (… “solo qui respirare è davvero altro, l’azione più densa della terra e a nessun organo adatta”…).
Mutando le ossa in cera, ho lievitato il puro pane dell’altrove, mangiandomi addosso tutta la luce del grano, quel filo di corda nel mare che è l’eco d’un mantra scordato, poi silenzioso.
Ho nutrito nella mente il mefitico della visione, ascoltato il segno denso della casa e dell’esilio scorrere nel disfarsi del foglio: il taglio della scure ha un suo sorriso che può sembrare impostore e toglie inchiostro al vocabolario del cosmo, geometrie rilegate a fuoco.
Ho guardato una mela baciare l’infinito, rispondere con la sua lingua errante al mio esistere in versi, l’ho vista cibare la poesia dell’arsenico, spaccare il grammo a diluirne i demoni (un bulino che incide piaghe rubando il gambo ai fiori).
Misurai con numeri ciechi il grembo nel ragno di dio -palude d’ali bendate-, calcolai l’origine mutante del suo labirinto e della sua voce, contai i granelli d’oppio nella clessidra (…“non ignorare l’assedio dei codici in questa stanza: nella voragine è nascosto un calice ed in esso il pendolo di tutte le sostanze: petalo e fiore”…)
Ora il mio sguardo è un inverno d’alberi in fiamme, alberi da scagliare tutti in un guscio di domande – con le mie mani impazzite; ne osservo la neve sulle tue labbra fossili mentre vivere e cancellare, pur di piegare le pietre al segreto delle vene, sono ormai diventati entrambi secrezioni del digiuno.
Ora l’invisibile parla il cerchio d’una ruota spezzata e nutre l’oltranza lunare d’un enigma sedato: lede l’illeso.


(chimera) – …e l’orologio della memo-ria sempre flette le sue lancette metafisiche, mimando i rami d’un bosco di finestre aperte, mentre il tuo viso si confonde sempre più col volto dei rumori e i viali del tuo pulsare coi fu-mi del sangue d’un’uva non matura: le dune dello spirito, nella notte della carne, chiedono al vento di farle crollare; pregano il cielo di toccare con il sogno la perpetua distanza d’esserci – il sonno del pensiero (ché il pensiero è sonno), il sogno di cadere.
Essersi polvere, risalire l’abisso dei propri brividi di realtà attraverso la dismisura profonda che sparisce nel buco del riflettere – la mano è un pianeta lontano, nel grigio ronzio della nebbia, un cuore lontano un gradino dalla benda aperta del momento perpetuo; strappare la ruggine dei ricordi; sfogliare il giornale co-me fosse un reperto del qui-e-ora, un reperto dell’altrove, delle sue sabbie ammalate; avvertire l’odore del sentiero impercorribile che ti si
dipana affianco e cambiarlo in una trenodia di fogliame autunnale; la mano è un pianeta lontano, un antro nel quale passare, definitivamente, la linea piumata dell’immagine irreale uomo/donna, a tremare, in ritardo, per un germoglio di rosa.


(ircocervo) – Sfiora l’occhio dell’inesistenza, lo tocca, lo accarezza, la ferita del nulla che si nasconde fra le dita, incede nel grembo d’ogni cosa: “per abitare, con la stele del fiato, il sorriso del perfettibile bisogna tendere alla forma di ciò ch’è sfatto, dilagare l’andirivieni del dubbio e tagliare le antenne di tutti i punti opachi”.


(cerbero) – Quando porto alla bocca lo zolfo del rito e nella fretta d’un chiaro incastro tra un’ombra e il suo doppio lo verso tutto, re-cito -nudo- la parte sottile d’un suono che scompare, divoro ogni piega dell’aria – le viscere d’un formicaio d’isole (…l’eco d’un plotone di fuliggine ne disegna la mappa…).
Quando porto alla bocca lo zolfo del rito, in questa grotta di riflessi, un pietrisco di sordine scioglie lo stormo sonoro dei miei gesti – mostrando un frutto di mite rugiada, piaga strato a strato il braccio del vortice che mi cinge – in un campo di melodie cancellate, la corrente incisa, interra la lanterna dell’intuire affinché risorga in un manto di stelle.

Roberto Nespola