La messa glagolitica di Leoš Janáček

La musica di Janáček è tra le più singolari ed originali di tutto il 900 e questa sua Messa glagolitica non fa certo eccezione.
Il singolare appellativo di “glagolitica” è dovuto all’uso di testi religiosi arcaici. L’alfabeto glagolitico (ossia, alfabeto “del verbo”) fu quello inventato ed elaborato nel IX secolo dai missionari Costantino e Metodio al fine di tradurre in segni scritti i fonemi delle lingue paleoslave (che allora erano soltanto parlate) e diffondere i testi delle sacre scritture (rito greco-bizantino); alfabeto, poi, che è l’antenato di quello “cirillico”, chiamato così in onore di Costantino che, in punto di morte, si era fatto ribattezzare col nome di Cirillo.
Non si tratta affatto di una Messa “classica” né dal punto di vista della forma musicale, né da quello del valore religioso – considerando che Janáček era ateo.
Possiamo dire con Pulcini (Albisani editore, Torino 2014) che “l’intento del musicista è stato quello d’immaginare semplicemente l’esplosione della cristianità nel suo paese: un misto d’enfasi istintuale e fanatismo, un alternarsi d’invocazioni e grida primordiali, tramite un’eloquenza non ‘fiorita’, non ‘accademica’: un’eloquenza primigenia, naturale, solenne, virile, plebea. Una «Sagra del cristianesimo» per parafrasare un altro celebre tributo della modernità alla ritualità arcaica.” E in un altro punto: “Si è parlato di ‘panteismo’, tradizionalmente fuso al cristianesimo nei popoli slavi, la cui religione precedente praticava forme di adorazione della terra e della natura. È l’autore stesso a suggerire una simile interpretazione […]”. E ancora: “Suggello di un’indefettibile fede panslava è naturalmente la Messa glagolitica, in cui il testo liturgico, in slavo ecclesiastico antico, diviene pretesto per un panteistico canto di fervore nazionale.”
Dunque, una sorta di liturgia primitiva se non proprio primordiale attraverso cui esprimere, in nuce e in una sorta di eternizzazione mitica, il sentire religioso d’un intero popolo – il suo spirito e le sue emozioni concrete.
In effetti, nel linguaggio musicale di quest’opera la dimensione ieratico-rituale, con la sua continua ripetizione di incisi variamente montati e giustapposti con sfasamenti eterofonici e polimodali, è preponderante. E sotto questo aspetto, il fattore lingua -come del resto in tutte le opere di Janáček, comprese quelle solo strumentali- è un elemento fondamentale: dona al tutto un’aura di primitivismo panteistico che sfiora il pagano nonostante il contenuto del testo – la musica mette chiaramente in risalto il dissidio che anima la lingua paleoslava all’altezza di questa evangelizzazione di Costantino e Metodio: quello di essere, al contempo, legata a riti panteistici e di essere altresì ingabbiata in un alfabeto creato apposta per veicolare i contenuti di un nuovo sentimento religioso, d’un nuovo afflato.
Come un alfabeto per mezzo del quale un rito, con tutte le sue parole e i suoi gesti, prende corpo, la musica di Janáček si fa segno (ferita, fenditura, crepa, escrezione); permeando i fonemi d’una lingua arcaica, incide nell’aria il senso del suo fluire.
L’atmosfera mitica e rituale legata ad una lingua arcaica e congelata nel tempo, poi, mi ha fatto pensare anche ad un altro capolavoro di Stravinskij ossia l’Oedipus Rex che è dell’anno prima (1927). Certo l’operazione stravinskiana è molto più astratta.

Roberto Nespola