rhêma

(pulvisivecinis)

-parte seconda-

II.

            (ippogrifo) – Germi astrusi sul bordo del lume e ver­miglie falene indifferenti; l’usu­ra, all’attrito, mu­­­­o­­­ve i fili d’un dramma insipi­do: un atomo di ruggine che si stempera come in ca­trame, come in acute macchie di ce­­­­ralacca. La sua ambigua clessidra di lampada -dentro il du­­b­­bio dell’ospite- è de­for­­mata da u­na chimera di neb­bie, urla in sca­tola; è inqui­na­ta da frantu­mi di ma­schere. Bisogna ferire l’errore finché non fac­­cia fu­mo, in un prisma di divergenze. Scru­­­­tan­­do sem­pre altro ad ogni in­ter­stizio, scru­­­tan­­do die­tro ogni immagine la si­lhouette d’un a­cro­­­bata for­sennato. (Alla radio si sente un lupo sbranare ogni polpa. Anche l’ac­ci­aio è divelto – ad incubare la trama e l’ordito d’ogni soffio di buio. Un assoluto d’ombre armate in fon­­­do alla luce; all’angolo del crepuscolo; lon­ta­­no da un approdo nel pensiero. Un catalogo di paludi dal sorriso appuntito, lacrime in pol­vere).

            Per calibrare quel sibilo solitario che gi­unge all’orecchio del mio deserto, dilatarne l’acre vertigine in un chiaro sapore di scaglie e squa­me, bisogna cambiare pelle – cambiare fo­glio. Bisogna bruciare tutti gli emblemi, fer­men­­ta­ti in macchinosi congegni, del corpo e dello spiri­to, anche quelli più viscidi, sfuggen­ti, -soprat­tut­to quelli- e tutti gli esorcismi a don­dolo, pungo­­lati di striscio; bisogna sputare l’osso; colpire i dadi truccati con la forza d’una mira involontaria.

            È come dischiudere lo zero sul filo di Sade e Masoch, squadernarlo in una pasta di no­mi e vetro; è come piantare un chiodo nel­l’ac­­­­qua del bicchiere, cementare le corde voca­li, aspidi di sonno, ad un pulviscolo di metalli – dove i muri non sono altro che valvole e mem­bra­ne d’inverse viscere, sagome da bivacco sul grigio vulcano del nemico: il dente che affonda nell’arancia vergine, in una rete d’àuguri e d’a­ru­spi­ci alla frontiera di qualcosa.

            È come disputare di stagioni e d’ana­ba­si in un tetro paesaggio di finestre chiuse, entità in orario dentro un tunnel dell’inferno (te­­le­­grafo tellurico, il mare è danaro: la pece del­­la natura, dinamite del nottetempo – il segno d’un’endiadi).             È come riempire l’abisso dell’Altrove con un vibrare di volti sfigurati, briciole di con­­­chiglie, riempire il sigillo straniero dell’i­stante con la forma del Fuori. Una mosca sulle cicatrici delle forme, isola vicina e lontana in una brulla selva d’occhi.

Roberto Nespola