Nella danza del significante: “in memoria di me” di Primo Colasanti

“[…] oso Arte:/ perché della Vita/ non mi è rimasto quasi più niente…” e la poesia -contenuta tutta in quel “quasi”- si svela così non solo come slancio vitale, pur presente in questa raccolta, ma anche e soprattutto come catalizzatore di traumi; come pure il verso, pienamente, si svela orizzonte di catarsi.

È come se un lutto, il lutto stesso d’esistere, avesse mostrato al poeta che ogni pienezza nasconde una metà vuota, che il pieno è una maschera, che persino la luce va illuminata. Un lutto che è la melancolia di esserci mancando all’essere (abbondano per questo le maiuscole -credo-), quella nostalgia che la poesia si porta sempre dietro: percepire l’esistere nella mancanza. Ma non è una poesia d’epifanie, questa, o di rivelazioni assolute ma una poesia fatta tutta di domande, di scavo nel linguaggio della realtà… e nell’irrealtà del linguaggio; una poesia che sa anche giocare con questa consapevolezza e che, proprio in quel mezzo vuoto, sa di potersi abbandonare alla danza del significante, e di poter usare questa danza per riconquistarsi una libertà da riportare sulla strada. Il vuoto, allora, induce a giocare con l’in-finito, spinge a combinare tra di loro le parole, esse sono specchio di quell’io che, spezzandosi in questa realtà mezza, diventa me: un oggettivo sub-iectum. Ed ecco che l’esperienza si fa imperienza, ossia, introiezione del confine; ecco che significato e significante sfilacciano i loro legami, legami che si fanno sempre più tenui e fragili. Il me del poeta scopre così di essere tanto dimezzato quanto intermedio, il ponte per un altrove che è destinato, forse,  a rimanere sempre tale ma che, di sicuro, rimane il pungolo incoercibile d’una lirica Sehnsucht.

Il poeta si aggira, dunque, in un mondo fortemente dimidiato, tutto ancora da mondare, a costruirsi un idioletto assoluto e profondo, un linguaggio che, sfiorando l’assurdo e il surrealismo, scavi strenuamente nell’intimità per trovare nel profondo una sorta di archetipo universale o comune; una diversa unità, sfuggente e non pensabile. Di lirica in lirica, passando dall’astratto al diaristico, attraversando anche l’astruso impoetico, che proprio per questo si fa poetico al quadrato, partecipiamo di questa ricerca di realtà oltre la realtà: domandare al vuoto di svuotarsi per raggiungere la sua pienezza di nulla e liberare ciò che è mezzo, renderlo infinito.

Roberto Nespola

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Piccola antologia da “In memoria di me” di Primo Colasanti

 

 

 

 

 

Piovo,
come
ragioni mezze,
sull’ora
tossica,
illuminando la luce.

 

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Occhi incollati a musica
verticale.
Ma sì, attendo un altro domani –
con un cammino liscio, nel petto.
(Un domani dove il sole non serve …)

 

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: “La Luce era sulla Polvere!
Sì, me l’hanno detto, ma non c’ero.
Venivo scritto dalle più sconosciute rovine,
vivendo un breve fiore di pietra!
Ero impassibile chimera
e resistente ombra;
così possibile a me stesso!

 

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Due Mondi, ormai:
due squadroni della Morte!
Un’ultima, eterna partita senz’arbitro …

Ah, sono così stufo di masturbare la Notte!

 

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Oh, densa morale delle stelle,
molti carnali me t’hanno creata!
Quante Notti, quante Estati,
quante spiagge …
Lacrima come limitata eco,
la scarpa slacciata,
gli occhi lunghi come lenze,
il mare di un nero superfluo!

 

***

 

Che sia votata la Notte
dell’impercettibile fogliame!,
ove, con Somma Coscienza,
affondo la Spada nel
V
U
O
T
O

 

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D’un sole terreno, la Statua!
Fino a prostituire il meriggio prodigio.
La foglia sempre attorno,
la formica dentro lo sguardo,
il gomito non più umano
,,,

 

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Tutto somiglia allo Sguardo!
Apparizione:
tu
SEI
Sparizione …