Le congrue incongruenze dell’autentico, considerazioni ex abrupto sulla poesia di Mario Benedetti e cinque sue poesie

Le congrue incongruenze dell’autentico

considerazioni ex abrupto sulla poesia di Mario Benedetti

 

Indubbiamente Mario Benedetti è tra le personalità poetiche più originali della nostra poesia di questi ultimi anni. Un unicum che affonda le proprie radici nell’instabilità esistenziale dell’uomo postmoderno. Il vagare rasoterra del suo sguardo, nel tentativo di aderire il più possibile a ciò che sta dicendo, apre il testo alle crepe del linguaggio, lo sviscera e lo smembra (lo disarticola). In questa discrasia e discronia tra esperire ed espressione, si scopre, così, l’oggettivo che erode il soggettivo, se ne fa prova: un monolite oscuro che è il buco nero attorno al quale gravitano le parole ed il pensare.
Nell’esporsi alla scrittura e alla lettura, dunque, i testi di questo libro si sfibrano, perdono connessioni; acquistano porosità e cominciano a respirare lentamente. Nelle poesie di Benedetti il meccanismo della visione, o della rappresentazione, s’inceppa di continuo offrendo però al testo un diverso piano di continuità e di contiguità, un’organicità che va oltre la mera paratassi di segmenti sintatticamente isolati; accostamento di ricordi e di esperienze tenuti insieme da legami incongrui da una parte, e coesione lirica dall’altra (un dimesso lirismo tutt’altro che letterario, beninteso).
“Umana gloria” è il suo libro più pienamente lirico, poi, in “Pitture nere su carta”, il linguaggio si condensa e si rapprende all’infinito, le incongruenze linguistiche della raccolta precedente diventano scarne ferite e i singoli testi tentativi di sanguinamento. Sempre più verso l’ultimo Celan e un inventario d’immagini e oggetti disarticolati, il testo, del tutto scarnificato, si coagula così in segni laconici: ogni parola sembra un addio alla possibilità d’esprimersi.
“Tersa morte” infine, sembra tentare una mediazione tra i due indirizzi precedenti ma, di fatto, è una testimonianza della sua impossibilità.

 

Roberto Nespola

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MARIO BENEDETTI, TUTTE LE POESIE – Garzanti, Milano 2017

 

da “Umana gloria” (2004)

Log, Ambleteuse (in “Altri luoghi”)

Un bianco dove non si mette niente,
di notte
si vede una pagina di Nerval,
il sangue di Esenin, una baita, la strada nuda di una frontiera,
un bungalow sulla costa.

Non è mai tornare se diventa che mi vedi leggero.
La mano attraverso le case è dirti “guarda”
e già ti sporgi sul mare.
E la primavera gira gli occhi nella primavera
se ti dico “guarda quante eriche”.

Difendimi, difendi questa notte bianca,
il giorno ripetuto nel pensiero.
Log, Ambleteuse,
colpi dei piedi sulla strada, facce piene di vento scuro,
i nostri visi nelle mani,
il vento negli occhi chiusi per pensarlo.

E un albero di fiori
sale sullo slargo con la marea
perché la mano è così, amore,
lei va alta fra i tuoi capelli.

 

Verso la casa nuova (in “Sassi, posti di erbe, resti”)

I larici e io solo. Le formiche
Hanno un altro passo. Come le erbe il fiato che manca.

Se tenessi questi campi dopo la pioggia
in un lento rotolare, un cadere nei campi come i morti della guerra,
vederli, risalire con loro. Anche per me
la stessa cosa, la stessa cosa vostra, un dolore violento,
cosa succede? cosa mi sta succedendo?

La casa nella sua fatica e gli occhi in un globo di panche, di sogni:
i poveri che hanno visto le cose,
le fiabe, i miracoli, come un paradiso che non c’è più.


 

Da “Pitture nere su carta” (2008)

Capitolo primo, Colori 11

E ora è stupore, il bambino.
Guarda negli occhi i suoi occhi.

Si aggrappa alla terra, col bianco dei fiori.
Libro della via Pál, melograni davanti,

tra noi che non eravamo.

Nato da visi, da corpi, da tenera coppia.
Dentro, inseparati, oh, ma gli altri uguali insieme.

Spaccati, già morti, a uno a uno, a due.
E l’idea di vita pervade, trionfa.

Mondo non mondo, mio mondo nero.

 

Capitolo ottavo, 8.

Era la madre e sua, nel ricordo.
Risentiva parole, nelle proprie parole.

Io, soffio addensato a un’ombra di cera,
a un’ombra di sagoma…

Velame di posti. Viti, uova, radicchio,
aringhe, polenta. Maria, la nonna.

Viti di viti, uova di uova…
Carezzevole buio, sì, sono io.


 

Da “Tersa morte” (2013)

“Devo tenerlo per mano” in (“Madre”)

“Quel nulla che noi non saremo
porta con sé e cancella tutto.”
Devo tenerlo per mano,
non vedo nessuno tenere per mano i bambini.
Vicino alla manica lunga del braccio
i suoi occhi liberi, e tante madri,
tanti cuccioli di cagne e mucche insieme ai vitelli
che dormono come i bambini.
Ora escono dai muri delle case, entrano
nella mano senza dolore.
Sono entrati nella mano come un suo osso.
Le madri sono così sole con i loro bambini.
I figli hanno solamente le nostre ossa.
Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia,
io nella mia vita non ho letto nessuna poesia.
E questa nessuna l’ha scritta, nessuno l’ha letta.