Un infinito logorio dialettico innescato da un logos che potremmo definire lirico, anzi, messo proprio in moto dal logos lirico. Una grande capacità di rendere lirico il pensiero (filosofico e non) attraverso una lingua duttilissima e ricca di sonorità armoniche e attraverso un’apertura continua del senso. In alcuni passi ho riscontrato quello che si potrebbe definire come una sorta di ermetismo colloquiale.
Vi è nella poesia di Bigongiari un uso densissimo dell’assonanza e della rima interna e, soprattutto, delle interrogative dirette come a volersi sintonizzare con l’inespresso, mettere in sintonia il pensiero con la parola; come un continuo mettere alla prova la materia lirica.
Il segno lirico attraversa questa materia di domande con una pulsione incoercibile che gli è data proprio dalla poesia, dal suo poiein.
L’istanza dell’istante, tempo e spazio, un affastellarsi di rovelli è la sua lingua.
Roberto Nespola
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Volo di uccelli che sentono la tempesta D’uno in altro finito nelle azzurre caverne l’infinito schiuma al vento che involve nel suo fulgido tormento il colore dei prati, l’ali eterne di primavera dei sommessi alati: mare che non ha requie sulle tombe umane, dove i petti ansano invano, mare che spinge il suo sorriso a fiore strano tra scogli e addii. Ad ali tese precedono gli uccelli la tempesta, celesti ne disegnano corolle, grigi barlumi insegnano alle zolle e in alto al nido, fermo ingorgo di mota, di sterpi, d’amore ch’altro rapprese e sollevò tra i rami e le grondaie. Altro percorre il fiume fin oltre la sorgente, un altro lume avvena le tue mani, ulcera gli occhi. Chiamami dalla tua sorda caverna, io sono in basso, tento il piede, salgo alla tua verna altissima e non ti odo, amore penetrato come un chiodo sul legno delle croci che fioriscono. Piero Bigongiari da "Le mura di Pistoia" Tra la legge e la leggenda Amo perdere qualcosa, più che per ritrovarlo, per lasciare una traccia a chi m’insegue, forse perché amo farmi là raggiungere dove non sono, mentre guardo il mare che insinua tra le sue macerie il grido del gabbiano e un nido tra la ruggine perduto che galleggia tra le schegge, al contrario del gran depistatore, perché so che è difficile seguire chi, indeciso sulla propria meta, ma forse proprio in essa pesticciando, si distrae dietro un viso, si nasconde dietro il dito che indica le onde che asciugano e bagnano la riva del paese natale, la deriva della luce che liquida ne assale le sponde e nella mente le ravviva. Amo confondere il cricchio del tarlo a un andante di Mozart…, mescolare il passo del viandante per la via con quello di chi risale le scale a semicerchio della nostalgia. Amo dimenticare il profumo della cedrina su quello della tua pelle. Del tutto ricordare la parte più obliata, del frutto il seme ch’entro sé difende la sua amarezza in duro tegumento. Ma se mento, non mento che a me stesso per dirti la verità che nello stesso errore è celata, difesa, abbandonata a crescere in se stessa, nelle proprie contraddizioni elementari – è lì che ogni due si unifica, nei suoi seminali abbandoni. Amo guardarti mentre riveli in te una dolcezza che è quella della fata che nascosta tra gli alberi occhieggia che nessuno la segua andando verso il suo tugurio arredato come una reggia se tu ne precorri l’augurio coi tuoi occhi, scheggia impazzita tra gli altri balocchi del destino che l’uomo chiama vita. Cammino dietro a poche cose, quelle meno necessarie, le più volatili, le meno rare. Forse in mano ad esse è il codice per leggere il messaggio che la legge ha lasciato sul tuo tavolo, semiaperto, semicancellato, fra terribilità e dolcezza. Ma se tengo le mani ad un tempo sui due telai, è che amo riprendere dal secondo la tela che Penelope sta sfacendo: è solo con quel filo – altro non ne ho: l’aspo ne fu rapito – che sull’altro ritesso la leggenda. Tu che la leggi strappane la benda dei segni che l’accertano o la mettono in forse, perché, vedi, sotto sanguina. Piero Bigongiari da "La legge e la leggenda" Là finivano le tracce Dove finiscono le tracce un Angelo sta a guardia dell’assenza, o è l’assenza che vede nell’Angelo la sua stessa possibile presenza? Una polvere s’alza col simùn, poi tutto torna eguale, si deposita quella tempesta in una strana calma dove più nulla è simile a se stesso e la luce si spalma in un riflesso come in una radice sradicata dal suo sotterraneo complesso. In quel luogo felice e infelice ho seminato dentro la roccia, accarezzato l’acqua che ti sfugge, corretto il ruggire del fuoco in una dolcezza visionaria. Tutto questo ho fatto, e anche altro di simile a se stesso fino all’opposizione, in cui d’oro è la ruggine del sole nell’ossidarsi delle ultime foglie. Per fedeltà, per arrivare dove le tracce dell’incontro e della separazione fossero un seme che si fa radice unendo un nome a ciò che non ha nome. Lo dissi oblio forse per pudore: non v’è ombra più terribilmente ultima di quella di un bosco nell’autunno. Là ho riposato, mi sono alzato, ho guardato intorno: là finivano le tracce, il giorno era un’orgia con la notte, là nelle grotte riposava il vento senza bisogno d’un lasciapassare. Con le bisacce appese al collo tre pellegrini, richiesti, non risposero: un padre, un figlio, un’emanazione di tutto ciò che era e che non era? Così appare un significato sinistro e trionfante: un sistro, un sibilo incostante, un istante che ha perduto col passato il contatto e col futuro. Ed era là, ma era là caduto, il muro screpolato, in un ammasso di pietre, alcune figurate, altre con su scritta, illeggibile, la Legge. Ero là dove più nulla si legge, oltrepassato solo con lo sguardo il limite, là forse solo un raggio di sole. Era la morte la promessa che ti aspettava oscura sulle porte di un’identità che la natura, nemmeno la natura ebbe in sorte, quasi nostra, e non nostra, così pura? Piero Bigongiari da “Dove finiscono le tracce”
________________________________________________________________ *Verso tratto da "Nausicaa verso Aracne o Il sogno di Nessuno"