“Ma nulla è più diverso dell’uguale a se stesso”* Omaggio a Piero Bigongiari

Piero Bigongiari (a destra) con Giuseppe Ungaretti

Un infinito logorio dialettico innescato da un logos che potremmo definire lirico, anzi, messo proprio in moto dal logos lirico. Una grande capacità di rendere lirico il pensiero (filosofico e non) attraverso una lingua duttilissima e ricca di sonorità armoniche e attraverso un’apertura continua del senso. In alcuni passi ho riscontrato quello che si potrebbe definire come una sorta di ermetismo colloquiale.
Vi è nella poesia di Bigongiari un uso densissimo dell’assonanza e della rima interna e, soprattutto, delle interrogative dirette come a volersi sintonizzare con l’inespresso, mettere in sintonia il pensiero con la parola; come un continuo mettere alla prova la materia lirica.
Il segno lirico attraversa questa materia di domande con una pulsione incoercibile che gli è data proprio dalla poesia, dal suo poiein.
L’istanza dell’istante, tempo e spazio, un affastellarsi di rovelli è la sua lingua.

Roberto Nespola

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Volo di uccelli
 che sentono la tempesta

 D’uno in altro finito nelle azzurre
 caverne l’infinito schiuma al vento
 che involve nel suo fulgido tormento
 il colore dei prati, l’ali eterne
 di primavera dei sommessi alati:
 mare che non ha requie sulle tombe
 umane, dove i petti ansano invano,
 mare che spinge il suo sorriso a fiore
 strano tra scogli e addii. Ad ali tese
 precedono gli uccelli la tempesta,
 celesti ne disegnano corolle,
 grigi barlumi insegnano alle zolle
 e in alto al nido, fermo
 ingorgo di mota, di sterpi, d’amore
 ch’altro rapprese e sollevò tra i rami
 e le grondaie. Altro percorre il fiume
 fin oltre la sorgente, un altro lume
 avvena le tue mani, ulcera gli occhi.
 Chiamami dalla tua sorda caverna,
 io sono in basso, tento il piede, salgo
 alla tua verna altissima e non ti odo,
 amore penetrato come un chiodo
 sul legno delle croci che fioriscono.

 Piero Bigongiari da "Le mura di Pistoia"
 
  
 Tra la legge e la leggenda

 Amo perdere qualcosa, più che per ritrovarlo,
 per lasciare una traccia a chi m’insegue,
 forse perché amo farmi là raggiungere
 dove non sono, mentre guardo il mare
 che insinua tra le sue macerie il grido
 del gabbiano e un nido tra la ruggine
 perduto che galleggia tra le schegge,
 al contrario del gran depistatore,
 perché so che è difficile seguire
 chi, indeciso sulla propria meta,
 ma forse proprio in essa pesticciando,
 si distrae dietro un viso, si nasconde
 dietro il dito che indica le onde
 che asciugano e bagnano la riva
 del paese natale, la deriva
 della luce che liquida ne assale
 le sponde e nella mente le ravviva.

 Amo confondere il cricchio del tarlo
 a un andante di Mozart…, mescolare
 il passo del viandante per la via
 con quello di chi risale le scale
 a semicerchio della nostalgia.
 Amo dimenticare il profumo della cedrina
 su quello della tua pelle. Del tutto
 ricordare la parte più obliata,
 del frutto il seme ch’entro sé difende
 la sua amarezza in duro tegumento.
 Ma se mento, non mento che a me stesso
 per dirti la verità che nello stesso
 errore è celata, difesa, abbandonata
 a crescere in se stessa, nelle proprie
 contraddizioni elementari – è lì
 che ogni due si unifica, nei suoi
 seminali abbandoni.

 Amo guardarti
 mentre riveli in te una dolcezza
 che è quella della fata che nascosta
 tra gli alberi occhieggia che nessuno
 la segua andando verso il suo tugurio
 arredato come una reggia se tu
 ne precorri l’augurio coi tuoi occhi,
 scheggia impazzita tra gli altri balocchi
 del destino che l’uomo chiama vita.

 Cammino dietro a poche cose, quelle
 meno necessarie, le più volatili,
 le meno rare. Forse in mano ad esse
 è il codice per leggere il messaggio
 che la legge ha lasciato sul tuo tavolo,
 semiaperto, semicancellato,
 fra terribilità e dolcezza.
 Ma se tengo le mani ad un tempo
 sui due telai, è che amo riprendere
 dal secondo la tela che Penelope
 sta sfacendo: è solo con quel filo
 – altro non ne ho: l’aspo ne fu rapito –
 che sull’altro ritesso la leggenda.
 Tu che la leggi strappane la benda
 dei segni che l’accertano o la mettono
 in forse, perché, vedi, sotto sanguina. 

 Piero Bigongiari da "La legge e la leggenda"
 
 Là finivano le tracce

 Dove finiscono le tracce
 un Angelo sta a guardia dell’assenza,
 o è l’assenza che vede nell’Angelo
 la sua stessa possibile presenza?

 Una polvere s’alza col simùn,
 poi tutto torna eguale, si deposita
 quella tempesta in una strana calma
 dove più nulla è simile a se stesso

 e la luce si spalma in un riflesso
 come in una radice sradicata
 dal suo sotterraneo complesso.
 In quel luogo felice e infelice

 ho seminato dentro la roccia,
 accarezzato l’acqua che ti sfugge,
 corretto il ruggire del fuoco
 in una dolcezza visionaria.

 Tutto questo ho fatto, e anche altro
 di simile a se stesso fino all’opposizione,
 in cui d’oro è la ruggine del sole
 nell’ossidarsi delle ultime foglie.

 Per fedeltà, per arrivare dove
 le tracce dell’incontro e della separazione
 fossero un seme che si fa radice
 unendo un nome a ciò che non ha nome.

 Lo dissi oblio forse per pudore:
 non v’è ombra più terribilmente ultima
 di quella di un bosco nell’autunno.
 Là ho riposato, mi sono alzato, ho guardato

 intorno: là finivano le tracce,
 il giorno era un’orgia con la notte,
 là nelle grotte riposava il vento
 senza bisogno d’un lasciapassare.

 Con le bisacce appese al collo tre
 pellegrini, richiesti, non risposero:
 un padre, un figlio, un’emanazione
 di tutto ciò che era e che non era?

 Così appare un significato
 sinistro e trionfante: un sistro, un sibilo
 incostante, un istante che ha perduto
 col passato il contatto e col futuro.

 Ed era là, ma era là caduto,
 il muro screpolato, in un ammasso
 di pietre, alcune figurate, altre
 con su scritta, illeggibile, la Legge.

 Ero là dove più nulla si legge,
 oltrepassato solo con lo sguardo
 il limite, là forse solo un raggio
 di sole. Era la morte la promessa

 che ti aspettava oscura sulle porte
 di un’identità che la natura,
 nemmeno la natura ebbe in sorte,
 quasi nostra, e non nostra, così pura?

 Piero Bigongiari da “Dove finiscono le tracce”

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*Verso tratto da "Nausicaa verso Aracne o Il sogno di Nessuno"