Sette poesie da “Ultima scienza” di Herberto Helder

Tradotte dal francese da Roberto Nespola

Joan Mirò, Paesaggio

VERSIONI DA:

Herberto Helder, Science ultime

Traduit du portogais par Laura Lourenço et Marc-Ange Graff

Collection Terre de Poésie, Éditions Lettres Vives, Paris 1993

 
 
 

 Una rosa in fondo alla testa, quale oscura maniera
 di morire. Un profumo di sangue intorno alla fredda 
 camicia, la bocca piena d’aria, e la memoria
 che fa eco alle voci
 presenti. Là dove è assiso, egli brilla di tante
 molecole
 vive, di tanto idrogeno, tanta seta scivolata dalle spalle
 verso il basso. Egli tocca là
 dove la rosa scaturisce. Fanciullo
 luciferino. Sua madre chiude
 ed apre d’intorno un torrente d’atomi
 sul suo viso. E la rosa inspirata
 che gli mozza il respiro dai polmoni
 alla gola. Egli si porta un braccio alla spalla,
 sudando, raggiante
 nel suo sonno. Brucia dove egli la tocca. Parlerebbe ad alta voce
 se solo il suo peso l’interrasse all’altezza delle voci.
 Egli vede la radiosa materia di cui è fatto il mondo.
 Con la lingua dolce di latte,
 la sua mano destra nell’agro impasto, ed il sesso immerso
 nella sorgente occulta.
 Questo dono che sconvolge il fanciullo ardente è leggero come 
 il respiro, leggero come
 l’agonia.
 Una rosa in fondo alla testa.
  
 ***
  
 Infante sul ciglio dell’aria. Marcia tra i colori prodigiosi, tra le illuminazioni 
 d’acqua, smeraldi
 esasperati, tra le porpore. Entra nella radura. La attraversa, 
 interamente. È coperto di polline.
 Lo spasmo d’un gioiello che ruzzola,
 illuminato d’improvviso. La cicatrice sul torace è un’
 arborescenza
 d’oro e di sangue. Vi si ubriaca uno sciame d’immagini
 stellari, rosse,
 estreme.
 Gli alveoli all’interno del nero rendono folle l’infanzia.
 Nelle sue dimore profonde, Dio attende che si dimostri
 il teorema perfetto
 e terribile.
  
 ***
  
 Batti il bosco rubino,
 batti la pietra dalla crepa spalancata ad esaltare
 la luna, batti là dove
 spumeggiano i fiumi che varcano
 le foci
 siderali. Ed il bosco
 si solleva, fiammeggia la pietra astrologica, l’acqua
 si racchiude nei suoi orci di lava.
 Batti i tuoi bui empori dalle alte atmosfere.
 Mentre io dormo, la mia bocca riluce di sangue.
 La cadenza lunare trasforma i miei sogni.
 Il mio volto si consuma.
  
 ***
  
 Arancia, peso, possanza.
 C’è chi sprofonda, s’appoggia, delicatezza, fredda abbondanza.
 La materia pensa. Il bosco
 si gonfia. Rischiara. Purifica uno zucchero così leggero
 che è come un graffio sulla lingua. Spazio illuminato in cui l’arancia
 guadagna sovranità.
 E dagli anelli d’una carne artesiana, l’oro sale alla testa.
 La piaga che noi tutti siamo: di mondo
 e d’invenzione. Arancia
 stordimento. Dolce demenza, strappata alla mostruosa
 innocenza della terra.
  
 ***
  
 Acque spasmodiche, lune riflesse nell’acqua.
 Non si sa se sono le lune visibili a palpitare del battito
 delle acque, oppure se sono le acque a palpitare
 per la forza delle lune
 agitate. E il mondo, lo specchio che le lune svegliano e dal quale
 le acque traboccano, sono io che lo contemplo,
 o è lui che mi contempla,
 o entrambi reciprocamente? Viviamo del potere
 delle immagini. Del sangue e dell’innocenza
 e del severo splendore e dell’increspatura compatta e della materia
 cardiaca e comune.
 -  Di nome in nome passano in me i soffi. 
  
 ***
  
 Il cuore del poema è amaro.
 In alto, la mano sinistra scatena una stella,
 l’altra mano, in basso,
 rimesta un pantano bianco. Le ferite che si aprono,
 si riaprono, la notte le cuce, le ricuce
 con un filo incandescente. Amaro. Il sangue non si ferma mai
 da una mano all’altra sapido, tra gli occhi,
 negli alveoli della bocca.
 Il sangue che si muove nelle voci magnificando
 l’oscuro dietro le cose,
 gli aloni nelle immagini di limatura, gli spazi implacabili
 che tu scrivi
 tra le meteore. Ricuciti: tu brilli
 nelle tue cicatrici. Proprio questa mano che tu muovi
 in aria e l’altra che biancamente
 lavora
 le superfici centrifughe. Amaro, amaro. Di sangue ed esercizio
 d’eleganza barbara. Fino a quando, seduto nel centro 
 nero dell’opera, tu muori
 di luce compatta.
 Che in una radiazione d’elio esplodi della violenza
 oscura
 dei folli nuclei dell’anima.
  
 ***
  
 Ho praticato la mia arte di roseto: il freddo
 pendere di rose verso le mie dita
 illuminava le parole
 dall’alto.
 Le ho aperte verso l’interno lì dove il cuore era
 in nere capsule. Rose profonde, della profondità delle parole.
 Le ho trasfigurate.
 Nel laboratorio chiuso, ho cesellato la piaga meridiana
 di ciò che dimorava aperto.
 Ho scritto l’immagine cicatrice d’un’altra immagine.
 La mano sperimentale s’alterava al servizio
 scritto
 delle voci. Il sangue circondava il segreto. E nel profumo delle rose,
 dita su dita, questo: la breccia della carne,
 la morte per bocca.
 - Una frase, una ferita, una vita sigillata.