Lo spazio abitato dall’immagine: Gyorgy Ligeti e Stanley Kubrick

Tra i molti meriti di Stanley Kubrick, c’è ne uno che non va assolutamente dimenticato: l’estrema cura ed attenzione ai problemi del rapporto tra suono ed immagine.
Si tratta, il più delle volte, d’un rapporto assolutamente creativo che tende sempre alla realizzazione d’un tutt’uno concettuale.
Nello svolgersi della trama, nella configurazione narrativa della vicenda, infatti, suoni ed immagini si stimolano l’un l’altro in un interscambio che va dal semplice sottofondo (si pensi alle musiche di Barry Lindon, un drappo sonoro che scandisce il ritmo delle sequenze come una funzionalissima nota di colore ambientale e psicologico) all’estremo contrasto dinamico (si pensi alla “Gazza ladra ” o a “Singing in the rain ” in Arancia Meccanica).
Da questo punto di vista, le opere di Kubrick sono altamente innovative e ricche di spunti formali. E’ strabiliante dunque, come in ogni singola pellicola di Kubrick il problema della colonna musicale venga affrontato e risolto in maniera diversa ed infallibilmente originale.
Per 2001, in un primo momento, la MGM aveva imposto a Kubrick l’utilizzo di uno score originale ben più adatto ad un’operazione commerciale ad ampio raggio quale fu indubbiamente il lancio del film in questione al di là del suo spessore ermetico e filosofico. La partitura che in effetti fu interamente composta da Alex North appositamente per il film, è di notevole interesse ed ottima fattura e, qualche anno fa, è stata giustamente incisa su cd ma, all’ultimo momento, è stata rifiutata dal regista che preferì usare brani già scritti seppur molto recenti.
I brani di Ligeti (Atmosphères, Adventures, Requíem e Lux Æterna) appartengono tutti alla sua prima maturità e sono caratterizzati da un’estetica musicale estremamente innovativa per i tempi: queste partiture sono interamente costruite per fasce sonore e pongono l’ascoltatore dinanzi ad un continuum ipnotico in cui una possente attenzione al timbro di stampo impressionista fa tutt’uno con la sospensione di ogni discorsività.
Si tratta dunque, di una superficie liscia ed oscura come quella del monolito nel film, fatta di densissimi campi armonici in cui si cristallizzano momentanee polarità continuamente cangianti in assenza di qualsivoglia scansione ritmica.
Il rapporto tra musica ed infinito è sempre stato molto esplicito in Ligeti anche dal punto di vista teorico.
“La forma musicale è continua: la musica sembra venire dall’infinito e nell’infinito perdersi, non essendo che un momento audibile della ‘Musica delle sfere’ che resta immutabile ed eterna” ebbe appunto, a dire.
La musica di Ligeti è allora, musica nello e dello spazio inteso sia come spazio sidereo che come semplice estensione e Kubrick ne approfitta per farne l’ambiente ideale ad accogliere proficuamente le immagini del proprio film, soprattutto quelle legate al mistero (che è sotterraneamente il mistero della morte).
Soprattutto quelle più ostiche e filosofiche in cui la musica non è un mero artificio atto ad amplificare la carica emotiva delle immagini ma una vera e propria realtà filmica concreta e tangibile, funzionale alla storia (seppur misteriosa). Di musica sono fatte le strane radiazioni emanate dal monolito nero, il perno attomo al quale ruota l’intero film.
Attraverso la sua pura carica analogica, la musica diventa in questo modo, lo spazio abitato dall’immagine, spazio indeterminato che lascia libero piglio all’estro dell’immaginazione.
Infatti, Kubrick affermò: “ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico del film, io ho tentato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio”.

Fotogramma da 2001 Odissea nello spazio