L’etica del porcile in Pasolini e non solo

La bestialité dans toute sa candeur
Goethe: Faust, parte prima nella traduzione francese di Gérard de Nerval

La figura orwelliana del maiale, quella che, per intenderci, ne La fattoria degli animali non è altro che una rappresentazione traslata delle SS naziste, s’incontra, in varie estensioni metaforiche, con notevole frequenza nell’opera pasoliniana a partire da Mamma Roma fino a Salò e Petrolio. Un suo possibile archetipo si può rinvenire nell’episodio omerico di Circe che trasforma i compagni di Ulisse in maiali.
Questa terribile maga della mitologia, dunque, può essere considerata il fulcro di ben due concetti essenziali nella poetica di Pasolini:
la voracità erotico- consumistica della società moderna (nonché la voracità dell’eros ancestrale), e l’eresia della bestemmia

Circe difatti, secondo l’etimo della parola, bestia estimar, trasforma il desiderio erotico dell’uomo nei suoi confronti rendendolo disumano ossia trasforma in “carne ed ossa” il solito specchio letterario (vedi Esopo, Fedro ed altri favolisti) che vede negli animali un riflesso dei difetti dell’uomo.
Specchio a dire il vero piuttosto urticante se già Plutarco lo criticava mettendo in bocca a Grillo, un suo personaggio, un elogio della vita animale.
La visione di Omero e soprattutto quella di Plutarco trovano in Pasolini un punto di convergenza. Mi riferisco in particolar modo, all’opera Porcile scritta per il teatro nel ’66 e trasposta per il cinema nel ’69.
Metterò ora brevemente a fuoco le figure di Grillo e di Julian, il protagonista di Porcile..

Nel Bruta animalia ratione uti, Plutarco rielabora il noto episodio omerico in cui Circe tramuta in bestie i malcapitati compagni di Odisseo giunti in avanscoperta presso la sua dimora. Nella riscrittura plutarchiana, la maga, alla richiesta d’Ulisse di rendere di nuovo umani i propri amici, reagisce dando prima la parola (ma non il corpo) a Grillo, uno dei succubi del suo potere metamorfico, il quale si rifiuta di tornare uomo e recita un vero e proprio panegirico della vita animale superiore secondo lui, a quella umana nel coraggio, nella misura e nella mancanza di violenza gratuita.
Julian di Pasolini invece, è il figlio di un grande industriale cinico e perverso, simbolo d’un capitalismo scellerato che cresce e si espande sugli orrori della guerra (razzismo ed olocausto), che schiacciato dal peso della Storia, dei suoi orrori, non riesce né a rinnegare, né ad appoggiare il potere del padre, ad aderire ad una qualsivoglia ideologia.
In questo contesto di nevrosi e malattia, Julian matura un’affezione “zoorastica” nei confronti dei maiali della sua tenuta, intrattiene cioè con essi dei veri e propri rapporti sessuali che naturalmente non vengono mai rappresentati direttamente ma sempre raccontati in terza persona com’è prassi nel modello della tragedia greca antica dove l’indicibile (il nefas) non è mai messo in scena ma sempre raccontato da un testimone diretto.
La serie di questi atti tanto inverosimile e ridicola quanto ricca di pregnanza metaforica, si conclude con la sparizione fantasmatica del corpo di Julian:
il protagonista finisce divorato dai suoi oggetti d’amore. Di lui non rimarrà neanche una briciola, un misero bottone della sua giacca. Sarà come non fosse mai esistito. E’ così che i padri- maiali del fascismo industriale divorano i propri figli, poveri figli schiacciati dagli orrori della Storia e ridotti all’aprassia, poveri figli in cerca d’una possibile coscienza qualsiasi che non potranno mai trovare.

Come Circe che bestemmiando rende l’uomo disumano, e come Grillo che compie un atto che nel TAO o in Schopenhauer potrebbe essere definito d’“involontà volitiva”, Julian sceglie di non scegliere. Sceglie la sclerosi dell’esitazione e la sua vita si dissolve nel nulla (il nulla dell’al di qua).
In Omero- Plutarco come in Pasolini, la bestemmia è ricerca del disumano, oblio di sé oltre l’umano. Trovare nel legame che il maiale ha con la terra, nel suo puro istinto, un’origine che si perde ad infinitum nella stasi. Non c’e progresso nell’animale, tutt’al più sviluppo e lo sviluppo è naturalmente lento, sfinitamente lento. Nell’animale dunque, c’è una simbiosi totale e totalizzante con la natura, un’armonia che all’uomo è sempre sfuggita e che Pasolini credeva di rivedere nell’arcadia del mondo contadino. Tanto nel Bruta animalia quanto in Porcile, dunque, la presunta degradazione insita nella metamorfosi uomo- bestia, si trasforma in qualcos’altro. Un qualcos’altro che in Plutarco è totalmente positivo in quanto offre un ribaltamento ed una rivalutazione globale della condizione non umana mentre in Pasolini parte da una considerazione positiva (la simbiosi con l’istinto- natura) per approdare poi, ad una posizione forse più ambigua (la cancellazione totale e fantasmatica dell’esserci e dell’esserci stato).
Giunti a questo punto però, si comincia a far spazio una differenza sostanziale tra le due interpretazioni del mito di Circe. La strategia di Plutarco consiste in una critica profonda della presunzione dell’essere umano e nell’esaltazione della vita animale. Per fare ciò, Plutarco ha dovuto porsi in una prospettiva a metà tra l’umano e l’inumano, prospettiva ampiamente fornita dall’episodio omerico in questione dove i compagni d’Odisseo tramutati in maiali, mantengono l’intelletto umano. Da qui si genera una piccola incongruenza, poiché Grillo esalta una condizione, quella animale, da lui non vissuta pienamente: non è mai stato interamente animale e non avrebbe mai potuto raccontare la propria esperienza, una volta avuta in dono la parola, senza quella parte umana che di tale esperienza ha fatto parte. L’espediente di Plutarco si risolve tutto dunque, in un artificioso pretesto.
In Pasolini invece, non si tratta di oblio (anche solo parziale) ma di cancellazione totale dell’umano e della memoria, quindi, dell’esperire in toto. Si tratta d’una Sehnsucht nichilistica in parte analoga alla repulsione nei confronti della memoria e all’ invidia nei confronti dell’animale che mai ricorda descritte da Nietzsche all’inizio della Seconda Inattuale.
Siamo dunque nel campo non della narrazione ma in quello del nefas, dell’inenarrabile. Pasolini, procedendo lungo l’unione tra psicoanalisi e mito, parte dall’episodio di Circe per trasformarlo in un nefas ancor più grande simile a quello del Tieste di Seneca in cui Tieste, in un inverso pasto totemico inconsapevole, si ciba delle carni dei propri figli imbanditegli dal fratello. Quest’inversione del pasto totemico che è anche inversione del mito edipico, rappresenta l’interesse di Pasolini nei confronti d’un altro mito: quello di Crono il quale divora i propri figli per continuare a detenere il potere. Possiamo parlare dunque d’una rappresentazione simbolica del contro natura.
C’è poi da considerare anche il lato oscuro della bestia (natura), lato che coincide quasi totalmente con quello erotico già presente nell’episodio di Circe ma esaltato iperbolicamente da Pasolini, laddove l’erotismo è ricerca del piacere. Ricerca che la civiltà industriale tramuta in ricerca del benessere inserendola perfettamente negli spietati ingranaggi del consumismo che si fa sempre più consumo di sé.
Porco fascismo ma anche porco eros quindi, crasi inquietante che avvicina l’ultimo Pasolini al Nietzsche de “La volontà di potenza”.
Anche il maiale che Mamma Roma abbraccia nella parte iniziale del film, ha una doppia funzione allegorica: è il maiale del benessere nel consumo, aspirazione effimera che la misera prostituta ha ingenuamente idealizzato, ed è pure una rappresentazione traslata d’un rapporto madre – figlio che sfiora quasi la morbosità. Mamma Roma come Circe allora, attraverso un rapporto erotico mercenario che priva l’atto sessuale dell’amore convertendolo in istinto, trasforma i propri clienti in bestie esaltando così, per contrasto, fino all’estremo e all’eccesso, l’amore materno, ultimo appiglio d’una condizione disperata.
Nei riferimenti al maiale possiamo scorgere infine, quel meccanismo già ampiamente noto nello scrittore francese Jean Genet per cui si santifica l’abiezione. Meccanismo assolutamente poetico che abbandona l’io alla fatica del “vers en-vers” provenzale, tutto teso alla ribalta. Meccanismo che altro non è poi, se non un gioco dialettico tra cupio dissolvi ed horror vacui. Meccanismo che ritroviamo anche nei Canti di Maldoror di Roger Ducasse in cui il protagonista sogna di mutarsi in maiale dando nuovamente “corpo”, come in Plutarco, ad un rivolgimento dell’usuale e consunto paradigma antropomorfico.
Anche in Ducasse la trasformazione in maiale è profondamente sentita come ricompensa e degradazione (punizione), come una completa liberazione dal Dio (dal padre?) che comporta lo sfrenarsi assoluto d’ogni senso e azione quindi, come mezzo di autodistruzione.
Il maiale è dunque, in Pasolini anche un modo di raffigurare quell’omofilia autofagocitante che nelle sue ultime opere ha assunto proporzioni abnormi, un desiderio erotico e conoscitivo così intenso da configurarsi come annientamento del sé, autodistruzione.

Roberto Nespola

Francisco de Goya, Saturno devorando a su hijo (1819-1823)