Giorgio Morandi – Forma e assenza: vuoto come presenza dell’assenza.

[Frammento]

L’essere è segno ma è anche l’impossibilità d’una sua pienezza, in un’infinità di rimandi che riecheggiano nel vuoto d’un farsi e disfarsi ininterrotto che non trova e non può trovare requie.

I segni pittorici di Giorgio Morandi hanno delle peculiarità che fanno capo ad una particolare concezione estetica e poetica. Nelle sue composizioni, nelle sue nature morte, gli oggetti inerti si trovano come in un estraniato esilio dall’essere e dal non essere, come in esilio da se stessi.

Natura morta metafisica (1918)

“Noi siamo un segno non significante,/ indolore, quasi abbiamo perduto/ nell’esilio il linguaggio.” (Ein Zeichen sind wir, deutenglos,/ Schmerzlos sind wir und haben fast/ Die Sprache in der Fremde verloren.) come ha scritto Friedrich Hölderlin (Mnemosyne vv.1-3 – la versione in italiano è di Enzo Mandruzzato).

L’uomo, la sua presenza come la presenza d’ogni cosa, è un puro segno, segno di nulla; d’una assenza inconcepibile (cioè lontana da qualsivoglia concetto). Nulla e assenza poiché il cielo è cavo: un vuoto. Tuttavia, aldilà, un oltre che è un qui all’ennesima potenza, in un luogo senza luogo e in un tempo senza tempo, c’è ancora il Tutto: una totalità (non totalitaria) fatta d’un differire infinito, infinite differenze e infinite ripetizioni.

Nella sua opacità criptomante, dunque, il segno mantiene una propria purezza: la sua è un’assenza talmente pura da trasformarsi in Presenza.

Quella di Morandi, in effetti, sembrerebbe un’operazione di deconcettualizzazione che ha molti tratti zen: gli oggetti delle sue nature morte hanno una presenza talmente epurata e depurata da svuotarsi in sé- un’assenza ed un vuoto, attorno al quale e alla quale, per la sua vigorosa forza centrifuga e centripeta, tutte le presenze possibili vengono a coagularsi, in escrescenze di senso e di insenso.

A Morandi, in sostanza, non interessa affatto rappresentare, non riproduce l’oggetto sulla tela per come appare, ma ne riproduce la sua cruda datità (o fatticità, per dirla con Sartre) e dalla brutalità, quasi, di questo dato squisitamente pittorico, scaturisce una liricità così intensa da proiettare l’immagine delle sue bottiglie vuote in una dimensione di grande pienezza enigmatica; una liricità il cui spessore ontologico ed esistenziale è dato essenzialmente dal silenzio e dalla molteplice eco che da esso promana.

Grande natura morta metafisica o Natura morta con il manichino (1918)

Roberto Nespola