Antonio Pibiri, In cosa consiste il lavoro

In questa nuova raccolta di Antonio Pibiri stupisce la densità con la quale stile e contenuto si uniscono – ammessa la validità di una tale dicotomia, che sotto tanti aspetti mostra notevoli défaillances.
Vi si nota, subito e preponderante, una continua oscillazione tra parola e immagine (come tra significante e significato) che crea una sorta di pulsazione biologica del testo. Come se la parola fosse una pietra scagliata ad infrangere l’immagine su quella superficie riflettente di un lago che è il testo, creando cerchi concentrici, vibrazioni in espansione.
Come se la costruzione coincidesse quasi con la dissoluzione dell’immagine e in questo gesto risiedesse tutta la pienezza di senso dei versi: c’è, dunque, il testo ma anche, contemporaneamente e fatalmente, lo sfilacciarsi del tessuto. La luna nel pozzo e il secchio.
Ed è proprio nel flusso di questo continuo dialogo tra forma e vuoto che il tema del lavoro (e tutta la costellazione di tematiche attinenti), ossimoricamente si raggruma: venature esistenziali di Storia, tracce di vita vissuta e “atti mancati” (come nei microliti di Celan), scivolamenti e grumi onirici di senso.
E così anche la punteggiatura (assieme ad un uso tutto particolare del corsivo) nel suo diradarsi in certi punti, dà luogo ad un addensarsi del ritmo del discorso che produce continui accavallamenti e scavallamenti di significato e di senso.

Roberto Nespola

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Tre poesie da IN COSA CONSISTE IL LAVORO di Antonio Pibiri, L’arcolaio editore 2020

Le stelle distanziano le ossa.
Sulle vie del tacere ho smarrito cosa dirti.
C’è solo l’ascolto da cui si ode
e al pari dell’oceano, come ogni elemento
raffina sè stesso.
Il vero si firma
somiglia a nomi
di fantasia.


Il quaderno dei disappunti

Il Maestro calligrafo Xi Zhi
“Devi scrivere con tutta la tua forza!”
O dovrò vivere con tutta la forza.
Gli animali, come le lavatrici,
vanno liberati immediatamente.
Mine e sterro da sottobosco,
i funghi gonfi d’acqua attendono
senza innesco filamenti di prima polluzione.

Dal murale l’albero sporge a picco sul cielo.
Il solo vivere rafforza l’errore, la genealogia.

Lasciatelo passare il vento, non manchi di noi.

Nell’acufene che tappa le orecchie
nel sublime nero, nel campo diserbe
la felicità insiste, vuole esistere
per quanto felice solo nell’Essere,
sguardo senza ritorno.


da “Serie salisburghese”

Il dio delle mosche
soffia sul letame. Il dio dell’Arte
siede a suo agio sulla vernice fresca.
Il dio dei poveri rimesta
cucchiai e forconi nell’abisso.
Il dio degli Affari Interni conosce
il cuore dell’alce.
Il dio campanaro di Sant’Apollinare
spolpa agli aggiogati il nodo.
Il dio dei passanti allevia le facciate
che dai lati incombono non
“nel modo di murare degli antichi”
Il dio della solitudine chiede
com’è che ancora si vive e
solo d’esser preso in braccio