A CLOCKWORK ORANGE DI ANTHONY BURGESS: UNA RIFLESSIONE

Un’ inquietante ottusità del male strettamente correlata ad una certa ipocrisia del “bene”: “On n’échappe pas de la machine”, come ha scritto Gilles Deleuze. Dalla biomeccanica di Mejerchol’d alle macchine inutili di Munari e Tinguely, dagli ingranaggi amorosi di Picabia alla macchina attoriale CB di Bene, passando per le scomposizioni futuriste etc. etc., l’Unheimlichkeit[1] -ma non solo- del tema dell’automa è stato il cruccio e il pungolo di moltissimi artisti.

Nel romanzo di Burgess, in questo quadro satirico-distopico dove il futuribile si apre ad un realismo al vetriolo, quasi espressionista, pare che al protagonista il libero arbitrio sia sempre mancato, sia prima che dopo la cosiddetta “cura Ludovico”: anche se poi invertito, dunque, ora in un senso ora nell’altro, il marchingegno malefico di nome Alex, malverso anche quando costretto ad una bontà mai sinceramente voluta, non può sfuggire né alle macchine sociali, politiche e affettive che vogliono inglobarlo e stringerlo fra i propri ingranaggi, e molto spesso per strumentalizzarne le esigenze e conformarlo al potere, né tantomeno a se stesso come macchina protesa automaticamente al desiderio del male. Fuori: un essere umano, dall’aspetto e dai modi anche gradevoli, un ragazzo; dentro: un congegno a molla sempre pronto a scattare in preda ad una pulsione incoercibile a fare il male – un congegno che, una volta tolto di mezzo ipocritamente l’impulso alla violenza, ognuno può caricare o disattivare a piacimento, a seconda del proprio utile. È come se la tabe d’una società allo sbando e profondamente malata, sfibrata e decerebrata, in totale balia d’una politica corrotta, abbia messo in moto un processo di decadenza morale e degrado che gira sempre su se stesso in moto perpetuo, come un meccanismo inceppato fatto di violenza da una parte e d’ipocrisia dall’altra (l’aion come un disco rotto?).

Il problema centrale è, pertanto, quello della volontà che in questo dilemma della dialettica tra bene e male si rivela ben altro che qualcosa di lineare, di univoco, un interruttore che basta schiacciare con un semplice gesto. La volontà non è mai buona -per citare Carmelo Bene-. E allora il lacerante dissidio tra una cattiva volontà pulsionale e una buona volontà coatta, farmacologica e finta, che annullerà il protagonista dopo la “cura” portandolo a tentare il suicidio, il feroce contrappasso d’un male voluto che gli si ritorce interamente contro, che è costretto a subire, inducendolo ad un’altra forma di ipocrisia, ad un’altra forma di violenza, non è solamente il segno d’una spirale di prepotenza, coercizione e sopruso dalla quale non si può uscire in mancanza di valori e, soprattutto, di radici e di cultura comunitaria e condivisa ma è proprio la ferita più profonda dell’umano, la crepa infinita della macchina dell’esserci: perché si vuole il male, perché si vuole il bene, perché si vuole.

Altro che “basta volerlo”, per quanto mi riguarda, basta non volere alcunché e si ottiene molto di più di quel che si vuole, che si vorrebbe, ma il non volere è pur sempre un atto volitivo (perché non si può non volere, almeno non integralmente?).

Certo è, anche, che la scelta d’un punto di vista unico, di far filtrare tutta la storia dal solo punto di vista del protagonista, non permette di comprendere fino in fondo che tipo di società Burgess voglia descriverci in sostanza o se l’autore intenda dare soltanto un esempio di gioventù traviata da un connaturato istinto al male in un mondo malandato e squilibrato. Per di più, quello di Alex, è uno sguardo dotato d’un’oggettività così fredda ed egotica, o d’una doppiezza così radicata e innata, da passare quasi per purezza ed il suo personaggio è così singolare nelle sue predilezioni e modi di raffinato dandismo animalesco che ogni generalizzazione salta via persa in un labirinto di specchi deformanti. In effetti in questo romanzo tutti i personaggi, se confrontati col protagonista, appaiono come intrappolati in una forma (non proprio stereotipica ma pressappoco tale), tutti intrappolati in se stessi – cosa che è un po’ lo stigma d’ogni narrazione, lo stigma della stessa esistenza.

La narrazione si destreggia, dunque, non sempre con esiti convincenti, tra tut’un’infinità di caratterizzazioni e strategie per rendere empatico il testo ed il protagonista, di cui lo slang inventato, in primis, è l’esempio massimo, (empatia per me ripugnante) e le descrizioni generali della società distopica di ambientazione.

Al di là del finale posticcio, in totale discrasia con il resto del romanzo, col suo tono fortemente satirico e parodistico, -un po’ come nel Don Giovanni di Mozart-, direi che, per molti versi, maxime per il finale, il film di Kubrick mi sembra molto più riuscito.

Possiamo dire, infine, che l’artificio è la rappresentazione e tutto il fenomenico è rappresentazione. L’autentico è l’inconcepibile che, inconsapevolmente, dentro di noi nutriamo e che si nutre di noi (…e che ci consuma?…). L’automa, come il mostro, è un’incarnazione della nostra alterità che apre un varco di consapevolezza nella dimensione dell’artificio.

È l’essere stesso, in sé, ad essere alterità. L’identità è il velo di Maya, un complesso di rappresentazioni che ci servono da orientamento nel labirinto (caotico?) della diversità in cui siamo immersi; l’identità è l’insieme di scarti, deiezione dialettica d’un flusso continuo che ci comprende. Insomma, essere è divenire non stare, presenza ch’è mancanza, mancanza che ci proietta in una lontananza metafisica, verso il senso e al di là dei significati.

O ancor meglio possiamo dire con Deleuze e Guattari (Kafka – Per una letteratura minore): Entrare nella macchina, uscirne, esserci dentro, rasentarla, accostarla, fa sempre parte della macchina: sono gli stati del desiderio, indipendentemente da ogni interpretazione. La linea di fuga fa parte della macchina. All’interno o all’esterno, l’animale fa parte della macchina-tana. Il problema non è tanto di essere liberi ma di trovare una via d’uscita, oppure un’entrata, o un lato, un corridoio, un’adiacenza, ecc.

***

Decidere: tagliare. Fare

della mia carne tutto

un taglio. Inseguire i fiotti

del sangue che zampilla,

nuvoloso.

Roberto Nespola


[1] Quel sentimento d’inquietante estraneità descritto da Freud e tradotto in italiano come “perturbante”.