Etimologando fra luce e teatro

appunti

«Il tema *deiwo- rappresenta la più antica denominazione della divinità, collegata con la nozione di ‘luce’. Essa si conserva nelle aree marginali, come nel sanscrito deva-, nel lituano diêvas, nel plurale nordico tivar» (G. Devoto, Dizionario etimologico). Traccia di questo tema è ben visibile nel latino deus e divus, nonché in dies (giorno, ). Anche nella lingua greca antica, nonostante in essa, come in tutte le aree indeuropee intermedie,  ancora il Devoto abbia individuato un passaggio dalla nozione della divinità come luce a quella della divinità come ‘spirito’, questo particolare legame è evidente, basti pensare alla parentela fonetica tra la parola θες (theòs – dio) e il sanscrito thieu (luce).

E allora mi piacerebbe ricollegarmi, seppur solo in senso etimologico, alla Summa Teologiæ di San Tommaso d’Aquino e riconnettere il sostantivo θες al verbo θεάομαι (theàomai, guardo) ma non per ribadire, col santo succitato, che Dio è onnisciente e tutto vede, bensì per inferire che nel divino, nel sacro, c’è quella luce che è la possibilità e la radice d’ogni sguardo; quella luce che è forma d’ogni cosa, vuoto per ogni risonanza; che Dio è unicamente questa luce -questa forma e questo vuoto: il chiaroscuro.

«È significativo che il verbo θεάομαι, “guardare a bocca aperta”, con meraviglia, in uno stato di coscienza assorto, aperto e contemplativo, costituisca la radice etimologica di théatron, il luogo di contemplazione dedicato a Dioniso» A. Tonelli, Eleusi e orfismo.

Luce e sacro, dunque, sguardo e teatro, sono un unico nodo; un unico nodo θαυμάζω (thaumazo, meravigliarsi) e θεάομαι – la bocca aperta e il vuoto di quel cerchio tracciato dalle labbra, uno zero che è cavità; la voce un incavo.

Ma a questo sguardo prevalentemente passivo dell’essere spettatori a bocca aperta è intimamente connesso, come facce di una stessa medaglia, lo sguardo attivo del θεωρέω (theorèo, osservo), ossia, quello del teorizzare, del pensiero.

I due verbi, θεάομαι e θεωρέω, hanno pressoché le stesse accezioni (“guardo”, “osservo”, “sono spettatore”, “esamino”) ma il secondo implica un passo ulteriore, quello del “meditare”, del “paragonare”, del “giudicare”, dell’“investigare”.

Pensare è essere illuminati e illuminare nello stesso tempo, dare forma, attraverso uno sguardo che è meraviglia, ad una porzione di realtà affinché essa diventi paradigma; pensare è l’anelito ad una forma che possa contenere se stessa, essere contenuta da se stessa, un cerchio che non riesce a chiudersi perché è se stesso, alla fin fine, che esso vorrebbe contenere.

Il pensiero è illuminato da questa luce e nello stesso tempo la irradia, dando forma ad una trascendenza tutta interiore, ad una metafisica tutta insita nel qui-e-ora. Ma trascendenza e metafisica sono due termini impropri poiché indicano un al-di-là. La luce di cui parlo non viene da, non proviene affatto, non viene e non sta: è in se e per se al di qua di tutto l’esistere (ma ogni attributo sarebbe improprio).

Questa luce è un vuoto (un vuoto divino) e, come il vuoto, è sempre in bilico tra trascendenza e immanenza.

Roberto Nespola