ANATOMIA FANTASTICA DEL SURREALISMO (Sette piccole tracce) – I

Pierre Boulez, René Char e i dilemmi della scrittura automatica

Jacqueline Lamba, Yves Tanguy e André Breton. Cadavre exquis. February 9, 1938

Intorno agli anni cinquanta la musica d’avanguardia si trovò in un’imbarazzante impasse. Per comprendere le radici di questa crisi è necessario volgere lo sguardo al passato e più precisamente ad una delle più eclatanti rivoluzioni musicali del novecento: la dodecafonia.

Questo metodo compositivo è stato inventato da Arnold Schönberg attorno agli anni venti e consiste nell’elaborazione di una serie d’altezze che comprenda tutti i suoni della scala temperata disposti in una successione stabilita di volta in volta dal compositore secondo il suo estro ma con l’unica prescrizione di non ripetere alcun suono.

La successione d’intervalli che si viene a determinare funge da matrice germinativa per la composizione tanto in senso orizzontale o melodico quanto in senso verticale o armonico.

La differenza col sistema tonale che sembrava allora definitivamente usurato, consiste nell’assenza totale di gerarchie tra un suono e l’altro della serie[1]. Difatti, la giusta denominazione di questa pratica compositiva, quella con la quale Schönberg presentò la propria invenzione, recita “metodo di comporre con 12 suoni riferiti solo l’uno all’altro”.

Con l’andare del tempo, la scrittura dodecafonica si polarizzò su due modelli distinti: da una parte Schönberg, sempre più propenso ad addolcire gli aspetti maggiormente radicali del proprio metodo, dall’altra, Anton Webern, uno dei suoi più importanti allievi, che applicò invece, tale metodo con rigore crescente fino a raggiungere risultati di geometria assoluta.

I giovani compositori degli anni cinquanta s’innamorarono a tal punto dei cristalli weberniani da rinnegare in toto la musica di Schönberg reo, secondo loro, di non aver sviluppato in avanti le proprie idee e di essersi involuto in ritorni quasi neoclassici.

Le opere di Webern assursero così, ad imprescindibile paradigma per molti giovani artisti quali Karlheinz Stockhausen, Luigi Nono e molti altri.

Di questa scuola che si accalca attorno alla figura di Webern, esistono poi, come su accennato, diversi aspetti critici e degenerativi.

Degenerazione che trova il suo apice nell’invenzione del serialismo integrale ossia nell’estensione dell’applicazione dei principi dodecafonici a tutti i parametri sonori (timbro, ritmo, agogica, dinamica, etc.) e non solo alle altezze.

Bisogna dire che già Adorno nel suo testo capitale, Filosofia della musica moderna (1949)[2], aveva individuato nell’ultima produzione di Anton Webern un uso feticistico della serie dodecafonica e nel suo saggio Invecchiamento della musica moderna (1955)[3] un’infatuazione eccessiva dei compositori postweberniani per il materiale: un accanirsi su griglie matematiche indipendente dal risultato sonoro effettivo. La dodecafonia quindi, o meglio la sua applicazione incondizionata, stava praticamente generando dei veri e propri mostri. Non si trattava allora del “Sonno della ragione”, per dirla col Goya, ma di un uso sconsiderato della razionalità. Pierre Boulez, il grande compositore, teorico e direttore d’orchestra francese, ha vissuto appieno questa crisi e la sua risoluzione[4]. Nel suo libro Pensare la musica oggi[5] ci offre un’illuminante radiografia di questa situazione:

“Quando abbiamo cominciato a generalizzare la serie a tutte le componenti del fenomeno sonoro, ci siamo buttati a corpo morto […]nelle cifre, rimestando alla rinfusa matematica ed aritmetica elementare[ … ] Del resto, a forza di preorganizzare il materiale, […]si era arrivati all’assurdità totale: […]Le differenti griglie di partenza si adattavano, in effetti, a un materiale «ideale» […] senza preoccuparsi delle contingenze […] Ogni sistema, accuratamente centrato su se stesso, non poteva sopportare gli altri, non poteva realizzarsi con essi se non per coincidenze miracolose. Le opere di questo periodo manifestano dopo tutto una rigidità estrema in tutti i campi della scrittura […] il compositore fuggiva la sua responsabilità nella scelta, nella determinazione[6], per farla assumere da un’organizzazione numerica, del tutto incapace di ciò “.

Ecco dunque un esempio di come l’estrema precisione porti ad un assurdo labirinto di determinazioni spesso assai difficile da “gestire”, di quanto sia sottile il confine tra ordine e disordine, caos e razionalità. Non a caso, detto en passant, molti musicologi hanno considerato la musica aleatoria[7] come l’altra faccia del serialismo integrale.

Calare rigide strutture matematiche all’interno del linguaggio musicale si rivelò così una fotocopia della scrittura automatica inventata dai surrealisti più di venti anni prima. Si può dire che preorganizzando certosinamente il materiale si ottiene lo stesso disordine, le stesse caotiche asimmetrie del lasciare “assolutamente” libera l’espressione artistica da qualsivoglia condizionamento logico- razionale. “L’invenzione senza disciplina è molto sovente un’invenzione insulsa, nel senso più letterale del termine; ma la disciplina senza invenzione non è meno insulsa, perché non fa presa su nulla “[8].  

Boulez comprese ben presto quindi, che era del tutto inutile abbandonarsi ad un “furor destruendi” neodada. Tra libertà creativa e rigore strutturale è necessaria dunque, una mediazione. Per questo Boulez, passò dall’ultra feticismo seriale di Structures e Polyphonie X, ad una scrittura più sensata, fertile ed accattivante.

La svolta si compie con un trittico di cantate non a caso su testi di un poeta surrealista: René Char (1907-1988). Si tratta di Le soleil des eaux (1948), Le visage nuptial (1948-50), entrambe per soli, coro e orchestra, ed infine di Le marteau sans maître (1954) per voce ed ensemble, capolavoro supremo in cui una struttura musicale a blocchi sonori e di un saldo rigore inventivo scatena la sua lucida furia attraverso una poesia totalmente libera e liberatoria ma oculatamente distribuita all’interno della composizione[9].

Boulez scopre la poesia di Char all’età di ventun anni: “Quello che mi piace della poesia di Char è la sua condensazione. E’ come scoprire una felce tagliata[ … ]: una specie di violenza contenuta, non una violenza che si esprime in una moltitudine di gesti, ma una violenza interiore, concentrata in una espressione d’estrema tensione”[10].

A partire da Char, Boulez intraprende una densissima ricerca sul rapporto tra testo e musica che lo porterà al mastodontico Pli selon pli (1974) basato su poesie di Stephane Mallarmè. Un meraviglioso compendio (quasi inventario) del connubio tra suono e parola, poesia e musica.  

Boulez pertanto, esce sano e salvo da questa crisi antiespressiva abbracciando con una mirabile maestria, un linguaggio forse meno intransigente ma non meno rigoroso dell’integralismo dodecafonico[11].

L’iter creativo di Renè Char è per certi versi inversamente simile a quello di Boulez. Dopo una salda collaborazione con Breton in Rallentare: lavori in corso, e dopo Il martello senza padrone del 1934, lavori d’assoluta libertà di scrittura, abbandona poco a poco il movimento surrealista maturando nuove esigenze espressive. Se il serialismo integrale e la scrittura automatica hanno dunque in comune l’abbandono della volontà e della scelta da parte dell’artista che li adotta, per Char come per Boulez, il rischio di sterilità è inevitabile ed inesorabile, sempre sulla soglia d’un paese fertile [12].

Per Char, soprattutto dopo la guerra e l’esperienza nella resistenza, scegliere diviene un atto dovuto ed adotta così, un nuovo linguaggio che pur utilizzando le scoperte ed i traguardi raggiunti dal surrealismo, li piega ad una comunicatività più diretta senza troppi psicologismi che hanno forse inficiato almeno la prima parte del movimento surrealista[13].

Homme, l’illusion imitée

Des yeux pur dans le bois cherchent en pleurant la tête habitable.[14]

Roberto Nespola


[1] Per questo motivo, la dodecafonia fu definita da una parte della critica musicale come il passaggio dalla monarchia della tonica al comunismo dei dodici suoni.

[2] T. W. Adorno: Filosofia della musica moderna, Einaudi 2002.

[3] T. W. Adorno: Invecchiamento della musica moderna, in Dissonanze, a cura di G. Manzoni, Feltrinelli 1990.

[4] Anche Boulez inizialmente mostrò un atteggiamento molto critico nei confronti di Schönberg (assai noto, almeno per il titolo, è un suo articolo del ’51: Schönberg è morto) e fu uno dei principali fautori del serialismo integrale.

[5] P. Boulez, Pensare la musica oggi, Einaudi, “Nuovo Politecnico”, 1979.

[6] Il grassetto è mio.

[7] Anche Boulez si occupò in parte di questa particolare tipologia di composizione.

[8] Pierre Boulez, Per volontà e per caso, Einaudi, “Nuovo Politecnico”, 1977.

[9] Credo sia doveroso precisare che la ricerca sul serialismo integrale e quella su un uso più libero della dodecafonia furono intraprese da Boulez parallelamente. L’ultima serie delle Structures risale infatti, al 1961.

[10] Dichiarazione dì Boulez da me direttamente tradotta dall’originale francese.

[11] Boulez ha sempre mantenuto fin ad ora, un fervido e più proficuo legame tra musica e scienza.

[12] Sottotitolo di una delle Structure per due pianoforti di Boulez.

[13] Bisogna pur dire che l’infatuazione di Breton per la psicoanalisi è facilmente comprensibile. Quella di Freud era allora, una scienza nuova e rivoluzionaria che stava muovendo i primissimi passi e quindi molto seducente per un movimento culturale altrettanto nuovo alla ricerca dei propri punti di riferimento espressivi.

[14] Uomo, l’illusione imitata/ Occhi puri nel bosco che cercano in lacrime una testa abitabile (Versi tratti dal “Bell’edificio e i presentimenti” poesia del “Martello senza padrone” di René Char messa in musica da Pierre Boulez) La traduzione in italiano è mia.