“lo spirito è un fatto, la materia un’ipotesi” (Cosmo Guastella):

appunti di lettura su alcuni libri di Antonio Pizzuto

SINFONIA (1923 e 1927)

L’interesse per questa sorta di opera-matrice di Pizzuto non poteva essere fievole. Un libro che l’autore, con l’ultima versione degli anni sessanta, si è portato dietro fino alla piena maturità. “Un” libro che segna l’inizio di una delle ricerche estetiche più interessanti della storia della letteratura (anche se poco nota).

Una ricerca estetica non fine a se stessa, come mero esibizionismo virtuosistico, né catalogo di precetti aprioristici astrattamente applicati ma necessità espressiva che sottende una precisa visione filosofica della realtà. Ottime, dunque, le premesse: la volontà di sciogliere tutti gli argini formali del genere romanzo per dare il via ad una scrittura più libera, con una concezione dello spazio e del tempo molto più fluida e molto meno lineare; una concezione diegetica del tempo e dello spazio molto più vicina al mondo dei suoni che al racconto letterario. Pizzuto già sapeva bene dove andare, dunque, ma purtroppo non sapeva ancora altrettanto bene come arrivarci e non tutte le intenzioni teoriche sono state pienamente esaudite. E si sa, inoltre, che di buone intenzioni è lastricata la via che porta all’inferno.

Senza contare la qualità della scrittura che in molti punti appare artefatta, se non proprio artificiosa e la vena ipereroica da superomismo dannunziano che imperversa in alcune sue parti. 

SI RIPARANO BAMBOLE

All’interno di una diegesi ancora piuttosto tradizionale, uno stile narrativo per certi versi ancora “classico”, quasi ottocentesco o primo novecentesco, in questo romanzo si sciorinano flebili frammenti di memoria: una sorta di stream of consciousness ma in terza persona; un non-io rimemorante che già s’indirizza verso quella che diverrà, in Testamento, “autobiografia senza attore” – autobiografia d’un burattino o, per meglio dire, d’una maschera. Una scrittura altamente sperimentale, dunque, in cui lo sperimentalismo non sta tanto nel linguaggio quanto nel come questi frammenti e tableau vengono montati insieme: in pratica essi si sciolgono l’uno nell’altro in un flusso continuo che non segue mai un ordine strettamente cronologico. I quadri sono tasselli di un puzzle scomposto, una serie di focus su momenti particolari della vita del protagonista e del suo ambiente sociale e culturale ai quali manca assolutamente una compatta e univoca visione d’insieme.

Si tratta in fondo d’una scrittura attraversata da profonde tensioni dissociative, risolte in un’affabulazione assoluta che, proprio per questo, nega se stessa: si nega nel cercare di spandersi il più possibile in un flusso non monodirezionale ma onniverso.  

PAGINETTE

Finalmente un libro in cui la sperimentazione pizzutiana è piena e ben definita nei suoi modi e intenti. Allentatosi l’elemento (auto)biografico, ora fortemente dissimulato, e scomparsa la struttura a memoriale dei suoi primi “romanzi”, la lingua in quanto veicolo d’una profonda necessità di affabulazione pura e come vettore di stralci di vita in corso, diviene la protagonista principale del testo.

Ci sono ancora lacerti di personaggi (Lumpi, Rombo) anche se non univocamente -non troppo- definiti nello spazio, nel tempo e nei contorni ma rimangono delle mere funzioni e su tutto prevale sempre il gusto del narrare per il narrare (che Pizzuto distingue dal raccontare, molto più solidificato e marmoreo – funzionale ad una storia di cui si fa testimonianza).

È una lingua, quella di Pizzuto, capace di sminuzzare lo sguardo, di spezzarlo in continue diffrazioni diegetiche, e di scomporre il flusso del discorso in un rizoma di risonanze.

Verbi in forme implicite come ablativi assoluti (ab-soluti, ossia disciolti), una sequela d’infiniti storici e d’imperfetti: tutto per evitare che la narrazione si sclerotizzi in una rappresentazione già data in tutto e per tutto nella lingua stessa e per far sì, invece, che il lettore sia compartecipe del testo e in contuizione con ciò che in esso si va dipanando (il mero io-funziono, secondo Frasca nella sua postfazione al libro). Meno personaggi e meno azioni (cioè meno giudizi) e più vita; meno racconto e più narrazione; meno rigide rappresentazioni e più vita pulsante. Poiché, unendo un antistoricismo assoluto al fenomenismo del suo maestro, Cosmo Guastella, Pizzuto arriva a dire che “il fatto è un’astrazione”.

L’indiretto libero, anzi “liberissimo” come scrive Frasca, di Pizzuto non è, allora, un linguaggio mimetico, pur avvalendosi di alcuni strumenti della mimesis: la terza persona/ voce appartiene ad un narratore scomparso dietro la propria materia narrativa, ad un narratore che non c’è (mai stato e mai voluto esserci). Non c’è una struttura di dati a comporre un racconto ma un darsi continuo del dire a una pura narrazione. Il narratore non si mimetizza nel linguaggio ma diventa trasparente. Dal vuoto della sua assenza (come una sorta di sostrato metafisico), offre al lettore stralci di realtà, lacerti quasi notomizzati ma quanto mai pulsanti di vita.

Da qui Pizzuto arriverà poi all’autobiografia senz’attore di Testamento e poi al fortissimo indeterminismo delle ultime opere.

***

[…]

1) Noi non possiamo conoscere che i nostri giudizi.

2) Noi non siamo però i nostri giudizi, siamo vita.

3) Intanto questo pure è un giudizio: donde un dualismo insuperabile, essendo ben chiaro che giudizi e vita si presuppongono a vicenda e che ogni tentativo di risolvere tale dualismo, a prescindere dalla valutazione di questa pretesa, conduce ulteriormente e sempre ad analoghe affermazioni.

4) Lo scetticismo è pure un giudizio, così come qualsiasi istanza definitoria, che anch’essa vi riconduce in perpetuo o, più esattamente, adduce a traguardi tautologici.

[…]

Essenza delle mie pagine, loro frutto e fonte ad un tempo, è un antistoricismo assoluto. La storia è un’esigenza a priori, categorica, inattuabile nella realtà storiografica perché è una ricerca senza fine che nessun risultato può soddisfare. Da qualsiasi dato possibile, lo sappiamo bene, scaturiscono incessantemente problemi nuovi. Il fatto è dunque un’astrazione, continuamente trascesa dal nostro bisogno di storia, che può concepirsi come una ricerca della persona nella persona, della vita nella vita: […].

[…]

Antonio Pizzuto, Vedutine circa la narrativa

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SINFONIA (1966, ’74)

Con questo testo, memore ma non poi moltissimo delle due “stesure” primeve, il sistema delle cosiddette lasse trova, rispetto a Paginette che è ancora troppo legato alla forma romanzo e all’uso di personaggi, una più completa realizzazione. Il termine “lassa” fu ideato da Gianfranco Contini ripensando all’epica medievale (soprattutto francese e spagnola) per indicare un brano narrativo in sé concluso, laddove nel medioevo indicava, invece, una strofa formata da versi ottonari o decasillabi o ancora dodecasillabi in quantità variabile e legati tra loro da un’unica rima o tutti assonanti, a racchiudere un singolo episodio del racconto epico. La lassa è dunque per Pizzuto uno spazio di condensazione narrativa la cui lunghezza è sì variabile ma entro certi termini ben definiti; uno spazio in cui far risuonare gli armonici di ciò che nella pagina è inscritto, in una sorta di epochè fenomenologica che mette tra parentesi frammenti di vita e di pieno esperire in una pura descrizione che rifugge dalla sclerotizzazione in fatti e dall’introspezione psicologica; che rifugge essenzialmente dall’io.

Una condensazione che, soprattutto in questo libro, può avere anche dei connotati onirici sebbene privati del loro aspetto simbolico e valorizzati, invece, come mero divertissement; una condensazione che ha indubbi connotati musicali.

In effetti, sono pochi i materiali e le tematiche che filtrano dalle due versioni giovanili del ’23 e del ’27 e considerando anche l’organicità dell’intero opus pizzutiano in cui ogni libro è strettamente legato a tutti gli altri anche da ritorni tematici, figurali e testuali, Sinfonia 1966 ha con i suoi precedenti più un rapporto di comunanza estetica che di vera e propria filiazione e questa comunanza si risolve tutta nell’importanza che ha il modello musicale nel determinare un tipo di scrittura che procede per scomposizione e ricomposizione di elementi più o meno disparati ed eterogenei che si echeggiano sottilmente e sotterraneamente.

Ciò che interessa Pizzuto è dunque, come accade nella musica con le relazioni tematiche e armoniche, mettere in correlazione concetti e cose senza legarli o incatenarli gli uni agli altri, creare fra di essi relazioni molto fluide, vibrazioni con le quali il lettore possa entrare in simpatia, correlazioni labili e senza stretto nesso causale ma di forte impatto vitalistico ed emozionale; creare una nebulosa di immagini indefinite e in espansione propulsiva.

La musica per Pizzuto è un modello di strutturazione linguistica fornito paradossalmente da un non-linguaggio, cioè l’exemplum d’una affabulazione vissuta in termini assoluti e che mescola indeterminismo a vivida concretezza.

La musica è quanto c’è di non linguistico nella lingua di Pizzuto. Il non linguistico che è la negazione del racconto:

il linguaggio non deve dire, raccontare, ma suggerire o indicare quella pienezza dell’evento che è inattingibile perché fuori dall’io e i suoi mezzi più importanti sono l’immediatezza e lo stupore.

PAGELLE I e II; ULTIME E PENULTIME

Con il passaggio dalle “lasse” alle “pagelle” lo spazio di condensazione si fa ancora più ristretto e criptico, aumentando così, tuttavia, nella rarefazione, la potenza di risonanza delle parole. Quest’ultime si dispongono, ora, secondo un finissimo contrappunto materico in cui l’importanza del ritmo e del metro, rispetto alle lasse, acquista un rilievo maggiore. Una prosa che sconfina nella poesia e viceversa (alle volte si sfiora addirittura il lirico – non so quanto volontariamente): un’osmosi.

Indeterminati meccanismi, casse di risonanza, a volte un poco macchinosi nella loro iper-grammaticalizzazione, calibratissimi ma non rigidi, questi testi si offrono ad una sintassi nominale che, eliminando tutti i modi finiti del verbo, prende il sopravvento e si addensa in aspre ed enigmatiche concrezioni di senso.

La paratassi ossessiva e la tecnica del collage, come in un dipinto divisionista o puntillista, attraversando tutte le potenzialità della metonimia, danno il via ad oggetti semantici non identificabili, tutti da (ri)costruire (“ogni punto di partenza è un punto d’arrivo e viceversa”).

Non si tratta però d’un’estetizzazione linguistica, o solo in parte. L’oggetto della scrittura, in Pizzuto, non è che un pretesto. Un pretesto per attraversare il vuoto dell’esistenza e toccare, di scorcio, l’intangibilità del senso.

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Neve afona, aerea, proteo esagona, senza resta, d’alieno latte mantellando, se pressa, crocchiante fastidita in sopore; e questo io qui ben armato, cupido, capriccioso, pettegolo, a catalogarne, che quasi con livore, sue viste determinabili per architetture improprie, di lusso, oltre gli insiemi infiniti detti coscienze.

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Antonio Pizzuto, Pagelle (Solitudine)

Roberto Nespola