ANATOMIA FANTASTICA DEL SURREALISMO (Sette piccole tracce)

VII. DUE POSTILLE AI “CANTI DI MALDOROR”.

Valentine Hugo, Maldoror a colloquio con il rospo (1933)
apparso nella rivista “Le Surréalisme au service de la Revolution”

Postilla alle strofe 5,6 e 7 del canto primo

In queste strofe si fa chiaro che le parole nella mente di Lautréamont sgorgano come il sangue da una ferita. Questa ferita nasce dalla necessità di ridere e nel riso è racchiusa tutta la hybris (υβρις) di

Maldoror[1], la sua tracotanza[2] nei confronti dell’uomo che si crede ad immagine e somiglianza di Dio ed invece non è altro che una creatura ridicola.

L’attacco spietato che Lautréamont rivolge a Dio è in realtà rivolto all’essere umano e per giudicare e condannare l’uomo Lautréamont deve snaturarsi, svellere dal proprio essere tutto ciò che c’è d’umano. Di qui la crudeltà terrificante dei Canti.

Maldoror deve dunque, secondo la legge della gravità della pietra (confronta la strofe terza) che è legge naturale, prostituirsi al male e schiacciare la lucciola di Dio o per meglio dire, dell’immagine che l’uomo si è fatta di Dio, quella biblica, per credere di aver superato la propria ignoranza.

Lautréamont attraverso Maldoror si diverte a smontare ogni singolo aspetto dell’esistenza e ad affondare gli artigli della propria immaginazione nell’intera realtà per gettarla in una sorta di tritatutto che la renda fluida ed indeterminata[3].

Per questo motivo quello di Lautréamont è un linguaggio che gioca con i propri limiti fino all’estremo, sempre sul punto di negarsi in uno slancio che è nichilista solo in quanto incline non tanto al vuoto quanto alla sovrabbondanza di significati e di senso.

Inclinazione di cui consta la qualità afasica di tutto il testo: un urlo muto.

Credo non sia per nulla peregrino, infine, accostare la concezione del male in questi Canti al “tenere fugientes deos” del Tieste senechiano[4].

È come se Maldoror volesse porre Dio di fronte ad uno specchio affinché Dio stesso contempli

nella propria immagine il riflesso dell’immensa crudeltà del mondo e della creazione e ne provi

ribrezzo.

Ribrezzo per quel male che a Dio (o alla sua concezione antropomorfa) dà forma e senso, che è Dio

stesso:

IN QUESTO IATO PROFONDO (la dicotomia male/ bene; Maldoror/ Dio) SI NASCONDE UNA CRASI (forse quella della trascendenza morale di Dio, per dirla col poeta mistico persiano Gialál ad-Dîn Rûmi).

Entrando ora nel peregrino mi verrebbe da inferire così:

Maldoror costringe Dio a farsi Narciso e ad affogare nella propria immagine.

Da questa infinita e continua morte del divino nasce l’eternità sacrale di Dio.

Salvador Dalí, illustrazione per Les Chants de Maldoror (1934)

Postilla alla strofe 10

 Nell’ossario di Pantin si sono forse dileguate o volatilizzate, le ossa di Ducasse? Trasportate da un

cimitero all’altro hanno trovato (grazie all’indifferenza del padre?) riposo nell’oblio.       

In questa visione di morte, in questo presagio onirico interrotto solo dal fruscio delle ali del rinolofo là dove in sogno Maldoror era trasportato dalle ossa delle ali del vento, in folle, infinita discesa come cometa stillante deserto e sangue, che è la decima strofe del primo canto, il male fa mostra di sé, si rivela proprio nel momento in cui si dissolve.

Viene riconosciuto, dagli uomini come dagli animali, con timore, angoscia, curiosità e mistero. Germogliando dai limiti della creazione, dai primigeni confini paradisiaci, il male si rappresenta come “deroga alla legge della natura”.


24 novembre 1870. Alle ore otto del mattino, Isidore- Lucien Ducasse muore nella sua casa di Parigi. Aveva appena ventiquattro anni. La causa del decesso rimarrà per sempre oscura: si è parlato di malattia infettiva, s’è parlato addirittura di suicidio. La salma è inumata temporaneamente al Cimitero del Nord per poi essere riesumata e trasferita in un altro cimitero il cui terreno tra il 1880 ed il 1890, rientrò a far parte dell’area cittadina ed adibito ad altro uso. È assai verosimile che le ossa del poeta abbiano avuto la stessa sorte di quelle delle spoglie non reclamate, a sua volta un altro mistero, e che siano finite nell’ossario di Pantin.

Al contrario dunque, della tomba del padre ancora visibile nel cimitero di Montevideo, il loculo d’Isidore Ducasse non esiste più e forse non è mai esistito perché privato della preghiera.


[1] In francese Maldoror si pronuncia come “mal d’aurore” ossia “mal d’aurora”.

[2] Tracotanza è solo una tra le tante delle possibili traduzioni del concetto greco di hybris.

[3] Bisogna pur tenere in considerazione che pur nella sua genialità, stiamo parlando di un adolescente. L’autore è un diciottenne che ha da poco finito il liceo.

L’estro proteiforme delle immagini e la problematicità della scrittura dei Canti è dovuta anche a questo. Di contro c’è però, una rigidissima consapevolezza che imbriglia il lettore in una fitta rete di strategie retoriche. Il testo pullula di trappole e trabocchetti tanto che molti studiosi si sono dichiarati inermi.

[4]  Parole pronunciate da Atreo all’inizio del quinto atto del Tieste di Seneca. Atreo vorrebbe trattenere gli dei per costringerli ad assistere al suo terribile atto di vendetta: uccidere i figli del proprio fratello Tieste per poi imbandirgliene le carni in un finto banchetto di riconciliazione.

[…] Oh, se potessi davvero trattenere gli dei che fuggono,/ e trascinarli, costringendoli, a vedere, tutti,/ il banchetto della vendetta […]. Seneca, Tieste, vv893-895 nella traduzione di Francesca Nenci.

Roberto Nespola

René Magritte, Illustrazione per Les Chants de Maldoror (1948)