ANATOMIA FANTASTICA DEL SURREALISMO (Sette piccole tracce)

VI. I VERSI DEL DIS- SENSO DI TOTI SCIALOJA.

Toti Scialoja, Senza titolo (1959)

Un altro outsider della letteratura italiana che in un certo qual modo si potrebbe avvicinare al surrealismo, è Toti Scialoja.

Anche se più noto come pittore (è considerato da tutti gli storici dell’arte come il padre dell’informale) le inclinazioni letterarie e poetiche in quest’artista si fecero sentire fin dai tempi dei primi studi.

La produzione poetica di Scialoja si può dividere, anche se sommariamente, in due parti distinte almeno da un punto di vista cronologico. Le prime raccolte poi riunite in un unico volume, Versi del senso perso, sono essenzialmente riservate ad un pubblico infantile, mentre a partire da Qui la vista è sui tigli (1979-1985) e Scarse serpi (1983) raccolte egualmente ludiche ma di uno sperimentalismo accentuato, il linguaggio diventa più complesso ed “oscuro”. Naturalmente tra le due fasi ci sono molti punti d’osmosi.

La sua notevolissima importanza come pittore unita al pregiudizio che gli studiosi hanno sempre mostrato nei confronti della letteratura giocosa, ha determinato come contrappeso, un disinteresse quasi totale del mondo accademico. In ogni modo, la poesia di Scialoja non manca d’illustri estimatori tra i quali si possono annoverare Italo Calvino, Alberto Arbasino, Giovanni Raboni e tanti altri.

Il punto di contatto tra Scialoja ed il surrealismo consiste ancora una volta nella psicoanalisi. “La psicoanalisi fa parte della mia formazione culturale” ebbe a dire in un’intervista. E ancora “Freud è un grande scrittore. Proust, Joyce, Kafka, appartengono al Novecento, mentre Freud è un grande romanziere dell’Ottocento che ha operato nel nostro secolo. I lavori di questo geniale indagatore della mente umana sono dei romanzi scritti benissimo”.

L’amore per il gioco e per il dadaistico accoppiamento delle parole in un colpo di dadi, hanno portato Scialoja alla tecnica delle associazioni libere. Come gli elementi compositivi nelle piazze metafisiche di De Chirico, le parole delle poesie di Scialoja sembrano liberarsi e liberarci dal senso seguendo comunque una strana logica autarchica fatta di leggi invisibili ed imponderabili eppure vivamente presenti, quasi inquietanti. Un colpo di dadi, come disse Mallarmé, non abolirà mai il destino (hasard).

È una scrittura che può definirsi tanto informale quanto sibillina[1] proprio perchè si fonda in massima parte sull’ambiguità della parola creando una lingua che procede tutta per ammiccamenti e allusioni e assorbita in uno specchio di riflessi fonici che ne fondano la struttura.

V’è dunque un’ossessione profonda in Scialoja per le parole e per il loro alone sonoro. Molte parole, infatti, ritornano, identiche o leggermente variate, sia in poesie consequenziali sia a distanza attraverso l’intero corpus, l’intero iter delle varie raccolte. In alcuni casi, più sporadici, può trattarsi di gesti, di piccoli movimenti che si ritrovano identici alla fine di una poesia e all’inizio della successiva senza che comunque, si tratti di parole o di gesti, si possa parlare effettivamente delle poesie di Scialoja come di un poema continuo[2].

Inoltre, la frizione surreale tra parola e contesto nelle poesie di Scialoja crea sempre un senso di ludico e lucido ludibrio del discorso.

Sono testi brevi e statici come quadri o bozzetti scenografici (fotografie istantanee). Piccoli segmenti geometrici in cui il movimento è assai raro e comunque, solo un accenno.

Poesia oggett-iva/ uale infine, che dà luogo ad un possibile orfismo giocoso, enigmatico ed enigmistico allo stesso tempo.

Roberto Nespola

Toti Scialoja fotografato da Mimmo Frassineti nel 1991

[1] Scandendo: “Ibis redibis/ -non- morieris in bello”…  (Le sillabe della sibilla, 1983-85).

[2] La mancanza di punteggiatura non fa altro che accentuare l’ostinazione delle parole a significare nonostante gli accoppiamenti fantasiosi e nonostante la destrutturazione del linguaggio.