ANATOMIA FANTASTICA DEL SURREALISMO (Sette piccole tracce)

V. PRENDI LA PENNA E IMPARA A GUARDARE[1]: AMELIA ROSSELLI… E L’ASSILLO È RIMA[2].

Max Ernst, La ruota della luce, 1926

Tra le figure italiane che si sono accostate anche solo marginalmente al surrealismo, quella di Amelia Rosselli, una vera e propria outsider della storia della letteratura italiana, è indubbiamente la più interessante.

Non gradirei tanto soffermarmi sulle notizie biografiche (estremamente interessanti ma facilmente reperibili) quanto piuttosto, abbandonarmi a piccole considerazioni estetiche partendo da una definizione di Pasolini che della Rosselli fu un importante scopritore e sostenitore.

Pasolini, in una sua prefazione alla raccolta “Variazioni belliche”, parlò della scrittura della Rosselli come di una “lussureggiante oasi fiorita con la stupefacente e casuale violenza del dato di fatto”

ANALIZZIAMO QUESTA SPLENDIDA ED ESAUSTIVA DEFINIZIONE PAROLA PER PAROLA, IN RELAZIONE ALL’ESTETICA SURREALISTA:

  • Oasi- Questa immagine può far riferimento all’esotismo dello stile plurilinguistico rosselliano (inteso anche come furiosa marcatura dell’eco della diversità) ma soprattutto all’isolamento d’una personalità originale ed apolide[1] impossibile da etichettare o ascrivere ad una qualsiasi corrente, ascrivere ad una qualsiasi idea di letterario. La stessa Rosselli scrisse di sé, in una sorta d’auto epigrafe funeraria “essa non scrive, muore/ appollaiata sul cestino di cose indigeste/ incerte le sue manie”[2].//
  • Fiorita (lussureggiante)- C’è nella poesia di questa donna un intenso gusto per l’esornativo che non ha niente a che fare però, con un amore per l’effimero o per il superfluo. Le efflorescenze rosselliane sono tutte estremamente radicate o per meglio dire citando un suo verso, solidamente prive di senso.
  • Stupefacente– Quest’aggettivo può essere collegato ad un gusto barocco del linguaggio rosselliano che in un certo senso mira allo stupore ed allo spaesamento del lettore. Spaesamento che si fa specchio d’uno sgomento interiore, dello sgomento del suo animo sradicato.

Si tratta di un linguaggio interamente costruito ed interamente orientato verso una robusta strutturazione sonora. Si tratta di una fervida attenzione al risultato sonoro dei versi, insomma, che può riportare alla mente certi eccessi fonici della poesia di Giovan Battista Marino. Il barocco della Rosselli non si trova dunque, a mio avviso, nella propensione per la metafora immaginosa ma nella densità e nella costruzione architettonica della lingua. L’estro e il capriccio della Rosselli riguardano esclusivamente le radici del suo personale idioma, riguardano il concetto-parola sempre messo in risalto a scapito dell’immagine. Ogni singolo componimento d’Amelia Rosselli si basa sull’intensa elaborazione di un particolare materiale retorico e linguistico -fonico e sintattico- trattato ed elaborato come per lo sviluppo d’una partitura musicale. Non bisogna dimenticare, infatti, che la Rosselli fu anche musicologa ed etnomusicologa, che compì anche studi di composizione musicale. Si può parlare dunque, di un gioco di/ fonosillabe[3] dove variatio ed inventio si alternano ferocemente in una mirabile estetica del difforme.

Quello della Rosselli è essenzialmente un procedimento paratattico che non si avvale di una continuità narrativa ma cerca continuità nelle assonanze, consonanze e strutture metrico- ritmiche di una personale e particolare prosodia[4]. Non in nessi logico-discorsivi ma attraverso una metamorfosi continua di elementi minimali e non[5]: particelle foniche, parole, sintagmi, concetti. A questo proposito si potrebbe coniare l’espressione di minimalismo mantrico[6] e parlare di parole accostate per assonanza o consonanza, di libertà neodada di un pensiero che si sviluppa per concatenazioni fonematiche.

Come nel minimalismo musicale la stasi delle sequenze melodiche procede per minime variazioni paratattiche all’interno di una ciclicità virtualmente infinita e attraverso progressioni armoniche che non hanno alcun sviluppo in quanto concepite come sequenze isolate che la ripetizione eccessiva rende ipnoticamente consequenziali e addirittura logicamente connesse, così pure nella scrittura della Rosselli l’ossessione iterativa di molti suoi testi si piega ad un esigenza del dire assolutamente slegata e quasi fine a se stessa[7] (necessitata tutt’al più da una sorta di urgenza – trauma espressiva).

Tornando alla variazione, vero e proprio archetipo musicale, vorrei concludere accennando ad una vocazione per l’inventariato attraverso l’anafora e attraverso particolari strutture iterative che accomuna i Canti di Maldoror di Roger Ducasse allo stile rosselliano.

  • Casuale– È evidente nella poesia della Rosselli, che la stragrande maggioranza dei testi è costruita con la tecnica delle associazioni libere. È questo l’unico debito consistente della Rosselli con Freud ma soprattutto col surrealismo. E’ un caos costruito ad arte, una specie di alea controllata[8]. (Frase non semplice/ tocca a te farne a meno[9]).
  • Violenza– La cosa che più fa scalpore, che maggiormente scuote il lettore sono i lapsus, gli scarti linguistici e sintattici della poesia rosselliana. La Rosselli specie nelle prime raccolte, fa un uso della lingua italiana che non può non definirsi maldestro ed è sempre molto difficile stabilire quanto ci sia d’intenzionale nelle sue sgrammaticature. Da apolide ed esule, da straniera del linguaggio, la Rosselli piega la lingua ad un’urgente esigenza fonetica.

Amelia Rosselli logora il linguaggio dall’interno ed il potere eversivo del suo dire è indubbiamente onnivoro. Le traduzioni dickinsoniane, ad esempio, sono caratterizzate da una sconvolgente letterarietà: la fedeltà per certi aspetti pedissequa, apre il testo ad un’originalità assoluta, all’insolito.

L’erosione linguistica non si ferma alla sintassi ma coinvolge anche la punteggiatura. Alcuni critici letterari hanno parlato di punteggiatura emotiva (accomunabile ai trattini della Dickinson).

  • Dato di fatto– I versi della Rosselli sono dei veri e propri objets a réaction poétique che fanno pensare a Duchamp ed al ready made. Un « occhio allo stato selvaggio »[10] il suo. Uno sguardo in cui vince il peso/ degli oggetti, il loro significare/ peso e perdita[11].

Roberto Nespola



[1] Nata in Francia da esuli genitori italiani (il padre è Carlo Rosselli, il padre del Socialismo Liberale, fondatore del

movimento antifascista “Giustizia e Libertà” assassinato dal regime da Mussolini), prima di stabilirsi a Roma, soggiorna per molto tempo negli Stati Uniti e in Inghilterra dove compie gli studi principali.

[2] Da “Forse morirò, forse ti lascerò queste”, in Serie ospedaliera.

[3] Da “L’alba si presentò sbracciata e impudica; io”, in Variazioni belliche.

[4] Prosodia che la Rosselli, grazie allo sprone di Pasolini, codificò minuziosamente in uno scritto del 1962 dal titolo “Spazi metrici” e che fu pubblicato in allegato al volume di “Variazioni belliche”.

[5] È bene precisare che non si tratta di segmenti ma di vere e proprie arcate sintattiche.

[6] Si potrebbe dire forse un po’ azzardatamente che la poesia della Rosselli volge all’intimo le roboanti iterazíoni mantriche della Beat Generation.

[7] Giovanni Giudici in un suo noto saggio parla di un dire che si esaurisce in se stesso.

[8] Tecnica musicale di composizione che mescola il caso alla predeterminazione.

[9] Da “Anche lui ha impiccato la rivoluzione”, in Documento.

[10] Lino Gabellone, L’oggetto surrealista, 1977.

[11] “C’è come un dolore nella stanza ed/ è superato in parte: ma vince il peso/ degli oggetti, il loro significare/ peso e perdita.// […]” incipit d’un componimento della raccolta Documento.


[1] Da “Cinque poesie per una poetica”, n°4 -incipit della seconda strofe.

[2] Questo anagramma del nome della Rosselli è il titolo di un documentario di Rosaria Lo Russo proiettato l’undici febbraio 2006 al Museo di Roma in Trastevere in occasione del decimo anniversario della morte della poetessa.