ANATOMIA FANTASTICA DEL SURREALISMO (Sette piccole tracce)

IV. Carmelo Bene. Fine del surrealismo o surrealismo della finalità?

Carmelo Bene in Arden of Feversham (fotografato da Claudio Abate)

Nonostante non compaia mai alcun riferimento esplicito nei suoi scritti sull’arte, sul teatro, sulla poesia e sulla filosofia, Carmelo Bene si è ispirato più volte al surrealismo. Si tratta, in primo luogo, di una cospicua attenzione rivolta a tre capisaldi della “tradizione” surrealista: Lautréamont e i suoi Canti di Maldoror, l’universo antropologico di de Sade e i fantocci teatrali d’Alfred Jarry; ed in secondo, d’alcune convergenze concettuali principalmente con Breton e Magritte. Vorrei passare in rapida se non telegrafica rassegna alcuni punti essenziali di queste confluenze di Bene verso il surrealismo prescindendo dalla loro maggiore o minore intenzionalità e sperando di offrire al lettore degli spunti per ulteriori ed eventuali ricerche e riflessioni.

Per quanto riguarda Lautréamont, il suo nome compare assai raramente (quasi mai) negli scritti beniani ma c’è un’immagine che a partire soprattutto da S.A.D.E. acquista sempre maggior rilievo ed è quella del Capello che si stacca dalla capigliatura del proprio padrone[1].

Questa citazione può forse stabilire un legame tra la furia distruttiva di Ducasse ed il rancore mis-ontologico di Bene nei confronti dell’oggetti(vi)tà presunta dell’esserci, nei confronti della presunzione insostenibile dell’Io d’essere presente attraverso il suo agire- patire[2].

V’è poi, tutto il discorso di Bene sull’esistere per mezzo della mancanza e su tutto ciò che in esso c’è di divino e sacro. Discorso che può forse rimandare all’immagine dell’ellissi in Maldoror, perno fondante di tutti i Canti.

V’è poi, tutta l’inesorabile crudeltà -teatrale[3]– del Divino Marchese passata attraverso il filtro caustico di un Artaud e spinta fino all’estremo dell’aporia (o aporia dell’estremo), crudeltà che trova sviluppo nella discrasia tra Potere e Padrone tolta di scena dal “Servo tutto fare (per niente concludere)”.

In S.A.D.E. ed in Ritratto di signora, gli unici due testi teatrali che Bene scrive da Autore e non da bricoleur, si dà atto (o meglio, aprassia) ad una vera e propria messa in scena (o meglio, tolta di scena) del nichilismo in maniera analoga forse, a quello che ha fatto Tristan Tzara con la letteratura. Ma anche la diffidenza se non l’odio per la cultura accademizzata e la predisposizione al “taglia e incolla” privo di qualsiasi intenzionalità di Dadà sono elementi che, con tutt’altro spessore -per carità-, possiamo ritrovare nell’opus beniano.

Per quanto riguarda, infine, le convergenze concettuali, l’estetica beniana del depensamento, d’un teatro libero e totalmente svincolato che nasce dalla destrutturazione del pensiero, si presta a numerosi collegamenti teoretici con artisti del surrealismo e filosofi e scrittori ad esso vicini. Già lo stesso termine non può non far pensare a Bataille, alla sua dépense (il sacro dispendio).

Si potrebbe citare, inoltre, ma solo en passant, per non impantanarsi troppo nelle pastoie d’una disamina cui non saprei far fronte e soprattutto in maniera sintetica, il decostruzionismo del filosofo francese Jacques Derrida e, sempre en passant, la particolarissima visuale di Breton che concepiva la poesia come una disfatta dell’intelletto ma probante (per Bene ogni operazione estetico- artistica ha l’obbligo “etico” del tracollo e nel tracollo l’unica via d’uscita dalla sua smisurata altezza).

René Magritte, Tentative de l’impossible (1928)

V’è poi, la rappresentazione dei trabocchetti della rappresentazione in Magritte (e a questo proposito si può confrontare Arden of Feversham[4], tanto per fare un esempio -forse il primo- tra i tanti) da mettere in parallelo con la crisi della messa in scena e con la crisi della rappresentazione a teatro.

Attraverso questa crisi che in Magritte trova un suo possibile (probabilmente sbiadito) riflesso, fra impossibilità dell’Io e transvalutazione in senso nicciano della soggettività, il funambolo Bene cade così doppiamente. Cade verso il basso ma cade anche verso l’alto. In questo acrobatico gioco di specchi, la sua phoné si fa per l’appunto verticalità del verso[5], un’erezione priva del coito, dell’inavvenir del coito.

Conteso tra la presenza dello stare e l’inconcludenza d’un Ubu o la biomeccanica di Mejerchold, il corpo scompare ed il soggetto diviene un ectoplasma da evocare, un simulacro da in-vocare tecnologicamente (nell’amplificazione dell’artificio vocale).

René Magritte, La Condition humainw (1933)

Roberto Nespola


[1] Nello spettacolo teatrale S.A.D.E. si tratta del personaggio del Padrone e in Maldoror si tratta di Dio. Non credo sia peregrino comunque, mettere queste due figure in relazione di specularità.

[2] “Sono un deserto che parla ad un altro deserto. Non al deserto dell’altro”.

[3] teatrante, giocosa, macchinosa (ma nient’affatto burlesca)

[4] Rielaborazione di un anonimo testo teatrale elisabettiano in cui molte didascalie sceniche fanno riferimento a quadri di Magritte quali “La Condition humaine” (1933) ma soprattutto, in maniera molto più esplicita, “Tentative de l’impossible” (1928).

[5] Questa espressione è stata coniata da Bene stesso a proposito del suo ultimo libro, unica sua opera poetica, ‘L MAL DE’ FIORI