III. La radice del manichino nello spazio metafisico.
Il 1910 è per Giorgio De Chirico l’anno fatidico dell’intuizione della metafisica. Tutto parte da un disagio, da una lontananza che dà corpo ad un quadro (“Enigma d’un pomeriggio d’autunno”):
“In un chiaro pomeriggio d’autunno ero seduto su una panca in mezzo a Piazza Santa Croce a Firenze. […] Ero appena uscito da una lunga e dolorosa malattia intestinale e mi trovavo in uno stato di sensibilità quasi morbosa. La natura intera, fino al marmo degli edifici e delle fontane mi sembrava convalescente. In mezzo alla piazza si eleva una statua che rappresenta Dante avvolto in un lungo mantello […]. Il sole autunnale, tiepido e senza amore, illuminava la statua, così come la facciata del tempio. Ebbi allora la strana impressione di vedere ogni cosa per la prima volta…”.
Anche qui[1] il corpo, nel disordine dileguato della malattia, è punto nodale della visione, della creazione di uno spazio altro che fa dell’enigma e della sospensione temporale un principio ineludibile di duplicità armonica.
Gli spazi geometrici pressoché deserti delle piazze metafisiche sono costruiti secondo le regole rigorose della prospettiva rinascimentale ma il loro naturalismo è soltanto apparente o per meglio dire, è ibrido, complesso ed artefatto. Quest’ossimoro si spiega con la sovrapposizione di schemi prospettici contrastanti. In “La stanchezza dell’infinito” per esempio, De Chirico impiega due sistemi incompatibili: da una parte, l’impostazione generale del quadro segue le norme della prospettiva centrale (quella le cui linee convergono tutte verso uno o due punti di fuga) dall’altro, la statua in primo piano s’inserisce perfettamente all’interno d’un cubo isometrico.
Questa concordia disarmonica in cui lo spazio sembra essere sfaldato da feritoie inesistenti, crollare logicamente su se stesso senza alcun motivo, crea agli occhi dello spettatore un senso spettrale di mistero indecifrabile, genera e dà vita all’inquietudine opaca del quotidiano.
Nell’acquiescenza filosofica di queste piazze c’è dunque, un’apprensione, come il presagio d’una catastrofe imminente.
A questo punto si può parlare dello spazio metafisico come di uno spazio androgino, inteso come “coincidentia oppositorum (corporis)”, punto di convergenza tra spazio realisticamente percepito e spazio fantasmaticamente decostruito ossia tra realtà ed irrealtà, tra sogno e veglia, organico ed inorganico, al di là della fisicità e al di là della materia ma soprattutto al di là della rappresentazione stessa.
Alle categorie succitate possiamo aggiungere in senso metaforico (e la metafora è un altro strumento di duplicità armonica), quella di maschile e femminile, intendendo con tali termini gli opposti archetipici (gli opposti per eccellenza).
Molto probabilmente André Breton s’innamorò letteralmente di questa de- composizione surrealista dello spazio poiché oltrepassava le fallacie dell’opposizione binaria, i feticci che ancora ammorbano la società odierna succube della tecnologia informatica, della digitalizzazione estrema ed onnivora. Lo spazio metafisico è di fatto uno spazio analogico, luogo d’indeterminate traslazioni.
Androgina ed analogica è pure la figura del manichino che popola la stagione artistica successiva di De Chirico. Concependo il corpo come un luogo e quindi come spazio, possiamo ritrovare nella successiva poetica del manichino tutti gli elementi che avevano contraddistinto la poetica della piazza metafisica.
Il manichino di de Chirico più che uno strumento allegorico vero e proprio è un mezzo plastico. La sua struttura è al contempo oscura e trasparente. È un essere meccanico ma è anche un essere trascendente. È una specie di geometrico androgino o di simulacro ermafrodita[3].
De Chirico scompone e ricompone continuamente i propri manichini: li dispone l’uno al fianco dell’altro, li slega, li mette in moto, gli assegna insomma, sempre nuove caratteristiche facendone il fulcro di una proiezione emotivo- corporale in uno spazio quasi asettico e rigido.
Sono volta per volta Ettore e Andromaca, il Pittore, il Poeta, il Filosofo, l’Archeologo, Il Trovatore… Nonostante questa molteplicità, il manichino conserva tuttavia, la sua lontananza uniforme e biunivoca nei confronti del reale. Può essere privo d’arti o d’articolazioni, «sostenuto da squadre, squadrette e righelli quasi come grucce trigonometriche. Una parte della critica lo definirà in modo astioso e becero “Dio ortopedico”».
Un’altra e più pertinente definizione di manichino la troviamo nei “Canti della mezza morte”, un testo teatrale del fratello Andrea De Chirico, (noto con lo pseudonimo di Alberto Savinio) che fu una vera e propria fonte d’ispirazione per Giorgio[4]:
Roberto Nespola
[1] Confronta “Sade è tornato. Nell’interstizio tra corpo e potere”.
[3] Si pensi alla sacralità dell’adolescente nelle opere di Pier Paolo Pasolini e al capitolo dell’ermafrodita nei Canti di
Maldoror di Lautréamont.
[4] Bisogna pur dire infine, che molto probabilmente la figura poetica del manichino non sarebbe nata senza la penna di
Guillaume Apollinaire amico e grande punto di riferimento poetico e letterario di entrambe i fratelli de Chirico
[5] Traduzione dal francese di Maria Rosa Cafaro in Michele Porzio: Savinio musicista, il suono metafisico (Marsilio
1988)