L’Orestea di Darius Milhaud

L’Orestie d’Eschyle

in tre parti, libretto dalla traduzione in francese dell’Orestea di Paul Claudel

Romeo Castellucci, Socìetas Raffaello Sanzio, Orestea

I) Agamemnon op.14 (1913)

[Organico: soprano, coro maschile, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, percussioni, arpa, archi
Composizione: Hellerau, 1913
Prima esecuzione in concerto: Parigi, Concerts Straram, 16 aprile 1927
Prima rappresentazione: Berlino, Deutsche opera, 24 aprile 1963]

II) Les Choéphores op.24 (1922)

[Organico: soprano, baritono, voce recitante, coro misto, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 4 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, percussioni, arpa, archi
Composizione: Parigi – Lione – Aix-en-Provence, 1915 – 1916
Prima rappresentazione: Bruxelles, Théâtre De la Monnaie, 27 marzo 1935]

III) Les Euménides op.41 (1923)

[Organico: 3 flauti (3 anche ottavino), 2 oboi, corno inglese, clarinetto piccolo, 2 clarinetti, clarinetto basso, 8 sassofoni, 3 fagotti, 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, percussioni, celesta, arpa, archi
Composizione: Rio de Janeiro, Fort de France – Aix-en-Provence, 1917 – 1922
Prima rappresentazione: Bruxelles, Radio belga, 1949]

Darius Milhaud nel 1912, a vent’anni, conobbe Paul Claudel “:incontro che doveva avere una grande influenza su di lui e la sua carriera. Fu in quello stesso anno che mise in musica i Sept Poèmes de la Connaissance de l’Est. Quando Claudel li ascoltò, disse al musicista: «Vous etes un male!» e gli parlò immediatamente de L’Orestiade di cui aveva cominciato la traduzione. – Qualche anno più tardi, nominato ambasciatore a Rio de Janeiro, Claudel condusse Milhaud con sé. Dei due anni passati in Brasile, Milhaud scrive: «Les Tropiques m’ont marqué profondement. Les deux ans passés à Rio de Janeiro ont exalté en moì toute ma latinité naturelle, et cela jusqu’au paroxisme». Ciò spiega perché il musicista tenga ancora alle opere composte in quel periodo. Ritornato in Francia nel 1918, nei tre anni seguenti Milhaud visse in un turbine d’idee, di forme e modi nuovi, di lotte e di polemiche … E’ il periodo dei «Six»: periodo nel quale Milhaud (con Honegger, Poulenc, Auric, ecc.) si affermò definitivamente, anche se la sua personalità, allora, sconcertava non poco i contemporanei: sia per la sua fecondità, sia per il fatto di servirsi di un nuovo linguaggio: la «politonalità». Come sempre, questo nuovo linguaggio ebbe fautori e avversari decisi. Alla politonalità Milhaud s’interessava fin dal 1914: si può dire che questo linguaggio gli era congenito. Nel 1923 affermava: «La Polytonalité et l’Atonalité ne sont pas des systemes arbitraires. Elles sont, l’une, le développement de l’harmonie et du contrepoint diatoniques, l’autre du chromatisme, et devraient à ce titre faire l’object d’études téchniques complementaìres… Ce qui determinerà la caractère polytonal ou atonal d’une oeuvre, ce sera bien moins le procede d’écriture que la melodie essentìelle qui en sera la source, et qui vieni du “coeur” seul du musicien…» (Notevole il fatto che, nel 1923, un musicista d’«avanguardia» parlasse di melodia essenziale che sgorga dal «cuore» del musicista).

Non era solamente la novità del linguaggio che sconcertava: era anche, e forse più, l’appetito di cose musicali che animava il compositore. Il quale, se riconosceva l’importanza della tradizione, non esitava a sfruttare tutti i mezzi musicali espressivi del suo tempo e ch’erano a sua portata: il jazz, il folklore, persino certi procedimenti della musica leggera, del caffè-concerto, delle orchestre delle fiere popolari… Tutto gli interessava, sfruttava tutti i mezzi che credeva opportuni creando opere d’ogni genere – musica da camera, musica sinfonica, balletti, opere teatrali, musiche per film ecc. -, opere animate da una straordinaria vivacità ritmica, da una ricchezza melodica che sembrava inesauribile, di una grande sicurezza di scrittura e di costruzione, di un’ariosità e di una luminosità mediterranee. Fu, allora, uno dei compositori più aspramente discussi (il che è una dimostrazione della sua importanza), sia a causa del suo linguaggio che delle sue idee estetiche. Ma già fin d’allora Schoenberg scriveva di lui: «Milhaud mi sembra il rappresentante più significativo delle attuali tendenze nei paesi latini, per il suo linguaggio politonale. Se questa tendenza mi piaccia oppur no, è una questione affatto secondaria. Ma trovo che Milhaud ha moltissimo talento». Non era poco, tanto più se si ricorda che cose simili sul musicista provenzale, scrivevano Ravel, Satie ed altri musicisti.

Da allora la vita di Milhaud si confonde sempre più con la sua opera: un’opera varia, intensa, straordinariamente ricca. E di una varietà e di un’abbondanza da richiamare alla memoria la produzione di certi antichi maestri. Tale abbondanza avrebbe potuto portare un altro musicista a una certa qual faciloneria: in Milhaud no: tutto è ben pensato e ben risolto. Che nella sua abbondantissima produzione (che conta circa cinquecento numeri d’opus, e comprende tutti i generi di composizione possibili) vi sia una parte meno felice, è possibile: ma per ciò che in essa resta di vitale (e non è poco), possiamo sottoscrivere ciò che Paul Collaer scriveva nel 1947: «La musique de Milhaud n’est pas objective, mais spirituelle, d’essence religieuse. Elle relie toutes choses par la vertu de la sensibilité humaine. Elle fait des objects, des plantes, des animaux, des hommes eux-mèmes pris comme individus, le témoins du drame de l’Homme, du drame éternel et invariable. Ce n’est pas seulement un de ses poèmes plastique qui porte le titre “L’homme et son desir”: c’est son oeuvre entière qui pourrait s’intituler ainsi, chantant la douler de l’homme en présence de l’impossibilité du bonheur, son regret d’une perfection qu’il n’atteindra pas, et son élan vers Dieu, vers tonte perfection, vers tonte consolation, vers l’Esprit en qui tout se résout et se simplifle».

Les Choéphores è la seconda parte della trilogia L’Orestie di Eschilo, tradotta da Paul Claudel. Nel 1913 il poeta aveva domandato al musicista di voler scrivere la musica per Agamennon da lui tradotto: e Milhaud aveva composto una musica per la scena in cui Clitennestra, dopo aver ucciso Agamennone, esce dalla reggia brandendo l’ascia insanguinata e si scontra col coro degli Anziani. Le Coefore, composto nel 1915-’16, comprende sette episodi; Le Eumenidi, la parte finale della grandiosa trilogia eschiliana tradotta da Claudel, fu musicata integralmente, e richiese al compositore cinque anni di lavoro: dal 1917 al 1922.” (Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell’Accademia di Santa Cecilia. Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 27 febbraio 1977)

In Agamennone e nelle Coefore la dimensione ieratico rituale voluta da Milhaud non lo porta ad una scrittura scarna e trasparente, austera o cristallizzata, al contrario, l’orchestra è sempre usata per dare la massima forza espressiva al testo, arrivando in punti di climax intenso a delle sonorità quasi violente e feroci.

A proposito delle Eumenidi, opera in cui spesso la declamazione perde quella “rigidità metallica” (Collaer) che caratterizza i primi due pannelli, Antonio Braga, nella sua monografia (pag.90), parla di “atmosfera terrificante e profondamente mistica, di un misticismo truculento, sanguigno e virile” e, per il terzo atto, di un pandemonio di accordi di quaranta suoni.”

Pur in presenza, dunque, di elementi classici della declamazione da oratorio tragico e di elementi di stilizzazione che anticipano di qualche hanno la rigidità marmorea dell’Œdipus Rex di Stravinskij, Milhaud, che nello spirito de Les Six è sempre stato un anticlassico, non rinuncia all’espressività della musica, a dare corpo e sangue al dramma. E lo fa con una tessitura orchestrale complessa e densa, sempre pronta alle sovrapposizioni politonali e poliritmiche.

E poi ci sono momenti di declamazione pura, con soli e discreti interventi delle percussioni, momenti in cui la vis ritmica assorbe l’intera gamma del dramma e la rende esemplarmente in tutta la sua complessità. Tecnica che anticipa di gran lunga quello che farà molto più tardi Karl Orff con l’Antigone (1949) e l’Edipo Re (1959) di Sofocle e con il Prometeo Incatenato di Eschilo (1968) e che porterà in quegli stessi anni 60 ma da parte di un musicista di nuova generazione, Iannis Xenakis, alla moderna “messa in musica” dell’Orestea. Certo in Orff la patina rituale medievaleggiante sclerotizza la musica e l’azione in una serie di segni gestualizzati e scolpiti nel marmo mentre in Milhaud la componente rituale non è altro che un mezzo espressivo tra gli altri atto ad esaltare la forza emotiva e catartica della tragedia greca. Entrambi, sia Orff che Milhaud, usano le percussioni solistiche, la polimodalità e la politonalità, la poliritmia, ma con intenti estetici, espressivi e poetici completamente differenti.

Un altro elemento d’interesse e di grande modernità è l’assenza totale sia di sviluppi tematici o di cellule motiviche, sia di motivi conduttori legati a questo o quel personaggio, a questo o quell’elemento dell’azione. “Dans tous ces chœurs des Choéphores et des deux premiers actes des Euménides, les mélodies s’affirment d’un coup. Elles ne se développent pas, mais il en vient toujours de nouvelles, aussi nettes, aussi décidées que les précédentes.” (Collaer, pag.167)

E ancora una curiosità: “Paraît Athéna. Sa voix se fait entendre de l’intérieur de la statue. Le moment est prodigieux. Contenant fermement sa musique dans la nuance piano, ne la laissent pas perdre de son intensité en lui permettant de faire un éclat, Milhaud confie le rôle d’Athéna à trois voix: soprano, mezzo, alto. Le soprano chante le texte, les deux autres voix le contrepointent. Le chant d’Athéna devient en lui-même une trinité, une musique complète et parfaite en elle-même. Elle chante sur une mélodie, d’une bonté indicible. Sa joie parfaite et tranquille est teintée d’une certaine mélancolie: la joie des prêtres et des ascètes est ineffable.” (Collaer pag.168) Come non pensare a come Schönberg realizzò la voce di Dio nel Moses und Aaron?

Molte sono, insomma, le novità e i punti d’interesse di una partitura che mi sorprende sia così poco frequentata. Braga nella sua monografia (pag.95), alla fine della sua disanima su questo ciclo di opere sceniche, li riassume tutti: “Inoltre, sul piano puramente tecnico, le tre partiture, ma in special modo quest’ultima, rivelano tanti sbalorditivi punti d’arrivo, non di un compositore, ma di un’epoca intera, da lasciare a lungo in meditazione il critico sulle sue pagine. Non è solo la “trovata” della declamazione parlata, sostenuta dalla percussione, a avervi un efficace, anzi, insostituibile impiego; ma è tutta la gamma delle possibilità, che è insita in questa idea, che dal musicista viene impiegata: l’alternarsi di una voce con i frammenti di altre voci, il coro scandito su accordi isocroni; coro e solista su una polifonia di strumenti; poliritmia sapiente nel dosaggio degli effetti, ecc. La politonalità, che nelle composizioni pianistiche (ad esempio, le Saudades do Brazil) si era tenuta sul semplice piano della bitonalità, sulla frizione di due toni, uno alla melodia, foss’essa espressa linearmente o in maniera accordale, ed uno al basso, nell’accompagnamento, qui si scatena in tutte le combinazioni possibili: linee melodiche, ognuna in un tono diverso, e ben lontane l’una dall’altra in modo da avere abbastanza “respiro” intorno per essere convenientemente percepite, pur se espresse simultaneamente; accordi di varie tonalità volteggianti gli uni sugli altri, in modo da creare un’atmosfera d’incubo, ed infine, accordi di quaranta suoni in funzione puramente ritmica, selvaggiamente percussiva.”

Roberto Nespola

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Paul Collaer, Darius Milhaud, N.V. De Nederlandsche Boekhandel, Anvers 1949Antonio Braga, Darius Milhaud, Edizioni Federico & Ardia, Napoli 196
Foto: Romeo Castellucci, Socìetas Raffaello Sanzio, Orestea