Il Tabarro di Puccini e Il Castello del Duca Barbablu al Teatro dell’Opera di Roma

Curioso progetto quello del “Trittico ricomposto” al Teatro dell’Opera di Roma. Un progetto che prevede la rappresentazione dell’intero ciclo pucciniano in tre diverse stagioni, accoppiando ogni volta una sua parte ad un diverso classico del novecento. Quest’anno è la volta del Tabarro in dittico con Il Castello del Duca Barbablù di Béla Bartók (seguiranno Gianni Schicchi -stranamente in seconda posizione- e L’enfant et les sortilèges di Ravel e poi Suor Angelica e Il Prigioniero di Dallapiccola).

Nonostante l’abbinamento sia un poco bislacco, non è la prima volta che lo si mette in scena: c’è già stato un “precedente” nel Maggio Musicale Fiorentino del 1970. Ma che cos’è che unisce o che potrebbe unire queste due opere?

Innanzitutto l’anno della prima rappresentazione che è per entrambe il 1918 anche se l’inizio della composizione del Castello del Duca Barbablù risale al 1910, anno in cui Béla Balasz, ispirandosi sia alla fiaba di Perrault che alla pièce di Maeterlinck messa in musica da Paul Dukas nel 1907, scrisse il libretto e lo propose, indifferentemente, sia a Kodály che a Bartók. Quest’ultimo decise di approfittarne per partecipare ad un concorso ma la partitura venne bocciata e giudicata addirittura ineseguibile. Il compositore vi metterà mano ancora nel 1912 e nel 1918, modificando il finale. Al 1921 risale -infine- la revisione definitiva.

Per quanto riguarda, invece, le tematiche dei rispettivi libretti, seppur in alcuni momenti le due vicende possono dare l’impressione di venirsi incontro, in realtà, appartengono a concezioni drammaturgiche ed estetiche troppo differenti e distanti perché si possa parlare di vere e proprie analogie. Differenza drammaturgica che è evidente nel diverso trattamento e concezione delle parti vocali: da una parte un flusso regolato e interpuntato da pieni slanci melodici a cadenzare l’acme del dramma e a sottolineare i moti dell’animo, incanalandosi in ariosi, canzoni etc.; dall’altra un declamato che si ispira al Pelléas di Debussy e allo sprechgesang di Schönberg, ricercando e trovando però soluzioni precipue nel cosiddetto “parlando rubato” delle antiche ballate contadine in cui il canto segue liberamente le inflessioni della lingua ungherese, al di fuori degli schemi metrici e ritmici della musica. Da una parte, dunque, un romanzo musicale pieno d’azione che mescola toni veristi a certi livori espressionistici; dall’altra, una fiaba simbolista o meglio ancora leggenda, che, per l’importanza drammaturgica dell’orchestra e l’assenza d’azione, è più affine al poema drammatico che all’opera. C’è da dire tuttavia che l’assenza d’azione e di personaggi secondari non implica una mancanza di vis teatrale, anzi, quello di Bartók e Balasz è un meccanismo geometrico inesorabile, fatto di immagini, di evocazioni, di colori, di volumi sonori e di luci, che cattura l’attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine; una struttura ad arco in cui, di porta in porta, di svelamento in svelamento, cominciando -nel buio- da una tonalità e raggiungendo un climax di massima luce e volume sonoro nella tonalità più lontana da quella di partenza, si torna indietro verso il buio ed il silenzio.

Comunque, oltre ad una generica difficoltà (anche tragica) di relazione tra uomo e donna, fra le due opere non riesco a vedere altre sintonie tematiche che possano fare seriamente da trait d’union.

Infine, la questione del linguaggio musicale. Direi che in queste due partiture è l’impressionismo il punto in comune più forte, con i suoi accordi paralleli, le sue raffinatezze timbriche e le sue armonie fluide. Con la differenza però che in Puccini si riduce tutto o quasi a puro colorismo (con tutta l’importanza drammaturgica e poetica che il colore assume in quest’opera) mentre in Bartók la sorprendente fantasia timbrica abbandona qualsiasi “flou”, qualsiasi sfumato, per divenire materia tagliente. In effetti, sia il lavoro di Balasz che quello di Bartók si distanziano decisamente da qualsiasi etichetta gli si voglia affibbiare – che sia impressionismo, espressionismo o simbolismo. Entrambi, attingendo ora all’uno ora all’altro, perseguono una propria precisa poetica: «…Mi sforzavo di sviluppare uno stile drammatico ungherese… Volevo ritrarre anime moderne con i semplici colori primitivi dei canti popolari. Volevo la stessa cosa cui mirava Bartók… Secondo noi una totale novità poteva derivare solo da ciò che era antico, perché solo da un materiale primigenio ci si poteva attendere che reggesse la nostra spiritualizzazione senza volatilizzarsi tra le nostre mani» (Béla Balasz).

Concludendo, in Puccini la cosa più importante è l’istinto teatrale e le novità del linguaggio musicale sono sempre strettamente legate all’efficacia narrativa: in questo, forse, è ancora un compositore dell’ottocento. Mentre in Bartók gli elementi innovativi del linguaggio musicale sono utilizzati a scandagliare il testo del libretto, ad analizzarlo, ad aprirlo alle domande e, perché no, anche alle sue stesse contraddizioni; c’è indubbiamente una dialettica più libera: la musica fa da prisma al testo e all’azione drammatica.

Interessante ad ogni modo è il confronto tra l’opera di un compositore maturo (a fine carriera) che guarda sicuramente alle novità del presente (Debussy e Stravinskij, soprattutto) ma che è anche capace d’un ironico sguardo retrospettivo (mi riferisco alla citazione dalla Bohème del venditore di canzonette) e l’opera d’un compositore giovane che non solo è alla sua prima prova teatrale ed operistica (che sarà poi l’unica) ma che è anche alla sua prima prova con la grande orchestra. Entrambi mostrano una grandissima capacità inventiva e innovativa.

Forse, dopo l’ascolto di questa insolita alchimia operistica, come afferma lo stesso regista di questo spettacolo, il Tabarro ci sembrerà più simbolico di quanto potessimo supporre prima, così come il Castello più realistico. Chissà.

Globalmente lo spettacolo è stato molto interessante, soprattutto per quanto riguarda la realizzazione musicale. Non posso dire altrettanto della regia che si è risolta, sostanzialmente, in una sequela di trovate sconclusionate e a tratti demenziali: un Tabarro senza tabarro e un Tabarro senza Senna (e senza senno), nonostante siano stati simbolicamente sostituiti da due teloni avviluppati, l’uno bianco l’altro nero. Praticamente la Senna e il tabarro sono stati sostituiti dalle loro salme. Gli elementi del dramma, insomma, sono stati tutti scomposti e cambiati di segno, rincorrendo simboli e analogie varie (letture più o meno fantasiose e più o meno artificiose) ma senza seguire una chiave di lettura coerente e coesa (almeno io non l’ho trovata). Decisamente meglio il Castello, cui però avrebbe giovato qualche forzatura di meno.

Molto affascinante la concertazione di Mariotti che, soprattutto dal punto di vista delle alchimie timbriche, ha offerto una lettura analitica delle due partiture e ha messo in forte risalto tutte le soluzioni più sperimentali adottate da Puccini e Bartók: un ascolto che per me è stato più volte illuminante.

Ancora più calzante e ricca è stata la lettura analitica del Castello. Qui Mariotti ha dato sicuramente il meglio di sé, scandagliando con intensità tutti i colori della partitura in una visione organica e profondamente poetica.

Roberto Nespola