Omaggio a Henri Michaux

HENRI MICHAUX, EMERGENCES-RESURGENCES (stralci sparsi)

Anche a me un giorno, tardi, ormai adulto, è giunto un impulso a disegnare, a partecipare del mondo attraverso delle linee.
Una linea piuttosto che delle linee. Così comincio, lasciandomi trasportare dal tratto di una, una sola. Senza staccare il carboncino dal foglio, la lascio correre senza fissarsi finché a forza di vagare in questo spazio ridotto, è costretta a fermarsi. Un groviglio è quel che ne nasce allora, un disegno che appare desideroso di rientrare in sé.

Ma quel che faccio è solo disegnare alla buona, come chi suona la chitarra con un dito solo?

Come me, la linea cerca senza sapere quel che cerca, rifiuta i risultati immediati, le soluzioni che s’offrono, le tentazioni subitanee. Guardandosi dal “concludere”, linea di cieca indagine.
Senza portare a nulla, fare qualcosa di bello o interessante, attraversando se stessa senza battere ciglio, senza voltarsi, senza legarsi, legarsi a nulla, lasciar trasparire l’immagine d’un oggetto, un paesaggio o d’una figura.
Linea sonnambula che non si scontra con nulla.
Curva, a tratti, ma senza viluppi.
Senza dividere niente, giammai divisa.

Linea che non ha ancora fatto la sua scelta, affatto pronta per una messa a punto.
Senza distinzione, senza enfasi, senza cedere del tutto alle attrazioni.
… Che veglia, che vaga. Linea nubile, che tende a restarlo, a custodire le proprie distanze, che non si sottomette, cieca a tutto ciò che è materiale. Né dominante né accompagnatrice e soprattutto, non subordinata.

E poi i segni, certi segni. I segni mi dicono qualcosa ma un segno è anche un segnale d’arresto. Dunque, in questo momento, mi volgo ad un altro desiderio, più importante di tutti gli altri. Vorrei un continuum. Un continuum come un mormorio che non ha fine, come la vita, che è ciò che ci continua, più importante di qualsiasi qualità.
Impossibile disegnare come se questa continuità non esistesse. Questa bisogna rendere.
Scacchi.
Scacchi.
Prove. Scacchi.

In mancanza di meglio, traccio una sorta di pittogrammi o piuttosto delle traiettorie pittografate, senza regole. Voglio che le mie tracce siano le frasi stesse della vita, flessibili, deformabili, sinuose. Intorno a me, l’annuire delle teste imbarazzate di chi mi vuole bene, … mi svio … invece di scrivere, tutto qui.

 

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Alcuni riducono il mondo all’intelligibile, il che vuol dire, in parte, rifiutarlo; spiriti astratti, sempre più astratti, sempre più repressi.
In effetti il mondo è pesante, denso, imbarazzante.
In un modo o nell’altro, per sopportarlo, bisogna rifiutarne gran parte. Tutti lo fanno.
Io, in particolare, lo faccio alla svelta, troppo alla svelta. A mio modo. Aspirando a una maggiore transrealtà in cui vivere per sempre.

 

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Nero malvagio di chi rifiuta, di chi nega. Dell’invasore che sta per varcare le frontiere.
[…]
Nero di malcontento. Nero senza imbarazzo. Senza compromesso. Nero che scorre con la bile.
Nero che impozzanghera, che urta, che passa per tutto il corpo…, che supera tutti gli ostacoli, che valica, che spegne ogni luce, nero che divora.
La rabbia qui, molto più grande dell’abbandono, diviene sempre più necessaria, più impellente, più al suo posto.

Questo sporco flutto nero, che sguazza, demolendo la pagina e il suo orizzonte, che attraversa ciecamente, stupidamente, insopportabilmente, mi obbliga a intervenire.

[…] Non sopporto più la grande macchia naturalmente bavosa, la rifiuto, la disfo, la sparpaglio. Ora tocca a me! I gesti ampi che compio per sbarazzarmi di queste pozze, m’aiutano ad esprimere con naturalezza grande disgusto e grande esasperazione. Sono espressivi. Bisogna fare in fretta. Gli oscuri pseudopodi che fuoriescono a volte dalle macchie gonfie d’inchiostro, m’impongono di vederci subito chiaro, di decidere all’istante.
Mi dibatto con la macchia, c’è una battaglia in corso. Prontamente reificate, la furia e la rabbia si sono trasformate in soldati […]

Henri Michaux, Emergenze-Risorgenze

 

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Anch’io sono stato in Giappone. Infermo è laggiù chi coi segni non sa significare. Segni grafici.
[…]
Ma è stata la pittura cinese ad entrare in me in profondità, a convertirmi. Al solo vederla mi sento assorbito dal mondo delle linee e dei segni.
Le cose lontane preferite alle vicine, la poesia dell’incompiutezza preferita al racconto diretto, alla copia.
I tratti slanciati, volteggianti, come colti dal movimento d’un’ispirazione improvvisa. Non tracciati prosaicamente, laboriosamente, esaustivamente […]

Ritorno.
L’Asia, ora lontana, torna. A tratti mi sommerge, a lunghi tratti. Tutti i paesi in cui ha regnato «La Pace Profonda» non mi hanno abbandonato. Invasione profonda. Invasione-ritardo. Risorgenza.
Paesi, pezzi di vita. Da bambino, senza comprendere, senza comunicare, distante, osservavo le persone che mi stavano intorno, il loro agitarsi privo di senso, la loro inquietudine. 
In me pace e distacco sono stati combattuti. Bambino in Occidente.

 

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D’altronde rifiutare è liberarsi, spezzare le catene, ritrovare la propria libertà, decollare.
Non più accettare ma «rifiutare», rifiutare in favore di ciò che non è e che non resterà.
Nocciolo d’energia (poiché indifferente è il suo oggetto e la sua origine) esso è l’ostacolo e il magico trampolino che mi darà una repentina liberazione.
L’arte è ciò che aiuta a liberarsi dell’inerzia.
Ciò che conta non è il respingere in sé o il sentimento generatore ma il tono. È per giungere là che, coscienti o no, si prende direzione verso una condizione di massimo slancio, di massima densità, essere e attualizzazione; condizione di cui il resto non è che il combustibile – o l’occasione.
È lei, ora, questa densità che attira ed eccita, lontana dal repellere […].
Anche contro la mia naturale inerzia, alla quale mi strappa, questo è il mezzo interiore più vitale di cui dispongo contro ciò che mi assedia, prossimo o meno, quello che mi rigenera di più, che dà risposta a cento situazioni […].
Ma al momento non voglio saperlo; sono in campagna; ho altre cose da fare che pensare.
E dopo?
Ebbene, io voglio soprattutto il movimento. Sono di quelli che amano il movimento, il movimento che spezza l’inerzia, che imbroglia le linee… che disfa ciò che si allinea, che mi toglie dall’imbarazzo di costruire. Movimento come disobbedienza, come rimaneggiamento.

 

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Segni che ritornano, mai gli stessi, era questo quello che intendevo fare più di tutto, un qualcosa non in vista d’un linguaggio – far uscire tutti i tipi d’uomo, senza braccia, gambe o busto magari, ma esseri umani per la loro dinamica interiore, storditi, esplosi; esseri che io sottometto (o sento sottomessi) a torsioni e stiramenti, ad espansioni in tutte le direzioni.
In forma di radice? Comunque, un uomo. Un uomo che percorre fiducioso un cieco sotterraneo per giungere poi alla grande luce del giorno.
Per centinaia di pagine, uno a uno, come catalogati (quattro o cinque per pagina, ciascuno a parte, isolato in una sua invisibile nicchia), figure d’uomo arrivano a me, mi ritornano: l’uomo è inobliabile.
Li picchio sulla pagina bianca o così mi piacerebbe. Vorrei picchiarli, flagellarli; uomo- flagello.
Senza testa, testa in basso, testa a clava, testa sferzante, uomo dilaniato che s’avventa su un non-so-che, per un non-so-che, forgiato da un non-so-che.

 

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Nella pittura il primitivo e il primordiale sono più evidenti.
Si passa per un minor numero d’intermediari e neanche sono dei veri e propri intermediari poiché non fanno parte d’un linguaggio codificato, organizzato, gerarchizzato.
Si può dipingere con due colori (disegnare con uno). Tre quattro al massimo, attraverso i secoli, sono stati sufficienti all’uomo per creare qualche cosa d’importante, di capitale, d’unico, che altrimenti sarebbe stato ignorato.
Per quanto riguarda le parole è un’altra cosa. Anche le tribù meno evolute ne hanno migliaia, legami complessi e ricche morfologie che richiedono un maneggiatore esperto.
Non esistono lingue realmente povere. Le cose peggiorano poi, con la scrittura. Ingombra d’abbondanze, di lusso, di numero di flessioni, di variazioni, di sfumature, se la si rende «bruta», se la si parla brutalmente è suo malgrado.

 

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Al ritorno da una giornata in ospedale, in una sera di stanchezza e spossatezza, mi viene voglia di guardare delle immagini. È quello che ho in animo di fare. Apro un pacco. Vi trovo riproduzioni d’opere d’arte. Al diavolo! Le scosto vivamente da me. Guardo ancora dentro, malvolentieri: ci sono ancora dei fogli di carta bianca. Cantano. Nella loro purezza, m’appaiono sciocchi, antipatici, pretenziosi, slegati dalla realtà. Ne afferro uno di malumore e comincio a cacciarvi su qualche colore scuro, a buttarvi dell’acqua a caso, imbronciato, tanto per tracciare schizzi, non per fare qualcosa di speciale, tantomeno un quadro. Non ho niente da fare, non ho che da disfare. Devo disfarmi d’un mondo di cose confuse e contraddittorie. Con una piuma che rabbiosamente cancella, sfregio le superfici per devastarle. Come devastazione è passata in me tutta questa giornata, facendo del mio essere una piaga. Giunga allora da questa carta una piaga!

 

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Non sono più riuscito a fare un acquerello decente senza assenza, senza qualche minuto almeno d’autentica cecità.
Spontanea. Sovraspontanea. La spontaneità, quella che non si dà in scrittura, s’è rifugiata tutta là dove peraltro sarebbe più a suo agio, dove cioè la riflessione può essere tenuta ai margini con più naturalezza.
Non decido di nulla. Niente ritocchi o correzioni. Non cerco di fare questo o quello; vado a caso sulla carta completamente all’oscuro di ciò che ne risulterà. Solo in un secondo momento, dopo averne fatti quattro o cinque di seguito, talvolta m’aspetto di vedere venir fuori qualcosa, dei volti ad esempio. Ci sono dei volti nell’aria. Di che genere? Non ne ho idea.

Ma dopo mesi, settimane, se li guardo…
No, io non voglio fare il detective.
L’opera deve restare la «scatola nera». Viva o no. Questo è tutto. Se non lo è, nel cestino!
Il problema di chi crea, problema sul problema dell’opera, è forse – che ne abbia orgoglio o vergogna segreta – quello della rinascita, della perpetua rinascita, uccello fenice che rinasce periodicamente, sorprendentemente, dalle sue ceneri e dal suo vuoto.

 

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Oscurità, antro da cui tutto può sorgere, dove è possibile cercare tutto.
Sotto pelle o cuticole, sotto una guaina, sotto le lamiere, i cappucci, il fasciame, i muri, sotto le facciate, sotto un guscio, sotto una corazza, tutto quello che conta, ciò che è organico, funzione o macchina e tutto ciò che è segreto, si trova a riparo dalla luce.

 

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Provo la china. Devo sporcare. È la condizione minima. Come prima cosa sporco il foglio e poi, per intorbidire ancora, un non-so-che di cui non voglio prendere coscienza, né colle parole, né coi pensieri, né per vaghi ricordi.
Non voglio sapere a cosa mi avvicino, non voglio cercarlo. Per fortuna ho una cattiva memoria […]
Foglio intorbidato, volti che ne sorgono senza sapere cosa vengono a fare là, senza ch’io stesso lo sappia. Essi si sono espressi prima di me, resi in un impressione che non riconosco più, che non so mai se ho già vissuto. Qui è la verità.

 

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Un cerchio all’interno d’un quadrato, un quadrato che diviene magico perché comprende tutto: comprende un cerchio il quale comprende un altro quadrato che a sua volta contiene un cerchio che contiene un quadrato il quale contiene un cerchio che contiene un quadrato e così via all’infinito. A ciascun livello di lettura, si possono attribuire uno o più significati, primi o derivati; significati che si possono leggere e decifrare, comunque, senza perdere di vista la verità ultima in cui si sprofonda, ipnoticamente coinvolti, assorbiti e trascinati verso il fondo che sempre indietreggia dell’indefinimento differenziale ma comunque nell’unità d’una ripetizione cadenzata e di un ritmo uniforme.
Dentro e verso l’immutabile.
Per una strana omeostasi, assieme all’indefinito, periodicamente, straniamento mutevole, l’Immutabile si tiene. Anche il suo carattere d’immutabilità ne rimane rinforzato.
Costruzione d’Infinito. Costituzione per difetto. Sintesi grafica d’una situazione generale, la più metafisica.
Pittura come oblio di sé, oblio di ciò che vediamo e di ciò che potremmo vedere. […]

 

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Ho smesso per alcuni anni di prendere allucinogeni ed ora è rimasto in me un impulso alla frammentazione. A volte vedo scomporsi i disegni che man mano tratteggio, li vedo dividersi e dividersi all’infinito.
È finita la chimica che interviene contro corrente nella macchina dello spirito con processi spezzati e nullificanti.
Il massacro perentorio, o delizioso o terribile, dell’ego e delle sue unità costruttive, appartiene al passato.
Tuttavia, quando riprendo in mano la penna fine adatta ad un’esile linearità, dopo un po’, stuzzicato in più da una leggera vertigine che fa percepire tremolanti le linee leggere e lo spazio che ne scaturisce, mi ritrovo (più che forzato, invitato) in un universo fuggevole, ben noto, immenso e immensamente bucato, dove tutto al contempo è e non è, mostra e non mostra, contiene e non contiene, disegni d’un’essenziale indefinitezza in cui scivolano volti intravisti, a volte con un’espressione, a volte con un’altra ma sempre indefinitamente indeterminati e mai definitivi.

 

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Getto l’acqua all’assalto dei pigmenti. I colori si sciolgono, si contraddicono, s’intensificano o mutano nel proprio contrario, violando le forme e le linee tratteggiate. Questa distruzione, scherno d’ogni fissità e d’ogni disegno, è fratello e sorella della mia condizione che non vede più niente tenersi in piedi.
Guidate da gesti convulsi, disordinati, dai getti di liquido lanciati al diavolo sui colori subito dispersi in fasci o sgocciolature, dai ricordi dei malati lividi ed emaciati in abominevoli sale d’ospedali pietosi […], teste infelici al colmo della disperazione appaiono sulla carta. Teste o frammenti di teste, desolazioni d’essere come già pronte, come se non attendessero altro che il mio gesto scombinato d’uomo sconvolto nel venire […].

 

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Scruto teste in tutto ciò che è incompiuto. Teste, incontro di momenti, di domande, d’inquietudini, di desideri, di ciò che tutto muove, che tutto combina […]. Tutto ciò che è fluido, una volta stabile diviene testa. Tutte le forme imprecise sono per me teste.

 

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Selvaggia titillazione d’un nervo nell’oscurità.
Immagini come risposta. Immagini come energia. Immagini come morsi.
Una giornata, quasi una giornata intera passata a guardare.
Costantemente, in queste ore di tensione trascorse ad occhi chiusi, ho ricevuto la prova che l’immagine è una certezza immediata, una certezza che il linguaggio non può tradurre se non di molto lontano e che essa ha nello spirito un posto molto particolare, materia prima per il pensiero.
Nello spirito si può vedere il passaggio dall’uno all’altro, la scomparsa dell’uno nell’altro […]

 

(Tradotto da Roberto Nespola)