La trilogia greca di Carl Orff

Tra il 1949 e il 1968, Orff scrisse una trilogia di opere teatrali tratte da tragedie greche. Nel voler far rivivere il teatro antico in tutta la sua essenza e non trasfigurato in opera lirica, hanno tutte una concezione originale e molti punti di interesse. Innanzitutto sono delle literaturoper, opere in cui il testo, cioè, non subisce alcuna riduzione librettistica: le prime due, Edipo Re e Antigone, si basano sulle stupende traduzioni di Hölderlin da Sofocle, la terza, il Prometeo Incatenato di Eschilo, “mette in musica” direttamente il testo greco.

I versi di Hölderlin, per la loro bellezza e pregnanza filosofica, storica ed esistenziale, meritano una spiegazione ed un approfondimento. Li prendo dalla monografia “Carl Orff” di Alberto Fassone, edita da Libreria Musicale Italiana Editrice (Lucca 1994):

«un breve ex-cursus sul significato che la versione di Hölderlin assunse, dopo decenni di completo accantonamento critico, nella storia della cultura del Novecento, nonché sul valore che essa ha, insieme con I’ Oedipus e con le Odi pindariche, nella personale filosofia della storia di Hölderlin. I primi giudici di questo testo straordinario furono, nel 1804, nientemeno che Goethe e Schiller, i rappresentanti par excellence del classicismo tedesco; ad essi, ed in particolare all’autore del Faust, il lavoro parve scaturito dalla tenebra che di lì a pochi mesi, in quel tragico 1804, sarebbe calata impietosamente ad offuscare la ragione di quell’entusiasta seguace di Dioniso. La levigatezza adamantina della Iphigenie goethiana, paradigma supremo d’armonia in senso winckelmanniano, non poteva invero segnare contrasto più forte con un testo nel quale, come nella Penthesilea di Kleist, il mito di una Grecia musaica dalle fattezze imperturbabili si sgretolava per l’emergere oscuro e minaccioso di un fondo arcaico-irrazionale. Il rifiuto delle traduzioni hölderliniane sulla base pretestuosa della follia che in seguito colse il poeta, si è radicato sin nel nostro secolo: ancora nel 1905, Dilthey riconfermava la tradizionale condanna.

La rivalutazione prese le mosse poco più tardi, con l’edizione delle Odi pindariche curata da Von Hellingrath (1911) e con la quarta delle Lettere viennesi di Hofmannsthal (1920), dove il clima di ‘religiosità premessianica’ in cui avviene la riscoperta di Hölderlin riceve la miglior descrizione, ma fu solo negli anni Quaranta, quando Heidegger tenne le sue celebri Vorlesungen su Hölderlin, che si verificò un improvviso ribaltamento critico. Coniugando la tematica dell’Antigonä a quella di un ritorno dell’uomo al Logos, al linguaggio in quanto veicolo privilegiato dell’Essere, Heidegger aprì il campo degli studi hölderliniani all’ermeneutica ed alla semiotica moderne, oltrepassando il recinto tradizionale della ricerca filologica.

Da allora in poi, le versioni dal greco di Hölderlin, ed in particolar modo l’Antigonä, sono state sviscerate a tutti i livelli: la modernità del poeta, che nelle sue sequenze visionarie di metafore aveva anticipato di sedici anni la Hérodiade di Mallarmé, si è disvelata così vieppiù, a controbilanciare l’indifferenza commiserevole della critica ottocentesca. La traduzione dell’Antigone si inserisce in un ampio progetto iniziato nel 1796 con la versione di uno stasimo dell’Edipo a Colono, che avrebbe dovuto comprendere anche l’Aiace e l’Edipo a Colono; gli unici drammi portati a compimento, Antigonä e Oidipus, apparvero alle stampe nell’aprile del 1804.

In essi, come annota Steiner, si possono enucleare tre livelli di traduzione, sincronici e strettamente intercorrelati: il primo tende a rendere il testo sofocleo modellandolo sulle strutture linguistiche del tedesco, in palese ottemperanza all’insegnamento classicistico  di Schiller […]. 11 secondo livello è proteso invece verso una posizione, parola per parola, dal greco nel nuovo medium linguistico sovvertendo così le strutture sintattiche della lingua tedesca in un anelito infervorato di ‘atticizzazione’. Infine, dopo il ritorno dalla Francia (1802), Hölderlin creò un terzo, geniale modello di metamorfosi del linguaggio, con il quale rivelava l’approdo ad una nuova Weltanschauung. L’atto stesso del tradurre era divenuto parte di un grandioso progetto di recupero della «unità fra la coscienza ed il mondo » (Steiner), sulle orme della Phänomenologie hegeliana. Forza propiziatrice di tale inaudita impresa veniva ad essere il tempo, vale a dire l’abisso temporale che si inarca fra l’Atene di Pericle e la Germania del XIX secolo, ingenerante una tensione dialettica che poteva disvelare, essa sola, le verità rimaste latenti nell’antico testo. Siccome per Hölderlin il tempo è alle radici del divino, il compito del traduttore assurse ora al ruolo sacerdotale del continuatore dell’opera dell’antico tragico, del quale adempie pertanto le estreme volontà in virtù della distanza nel tempo e del conseguente mutare dei linguaggi.

Per la filosofia della storia di Hölderlin, lo spirito occidentale ‘esperico’, ed in particolar modo quello tedesco, si oppone all’antico spirito greco attico, ma proprio in virtù di questa opposizione è in grado di disseppellire le limitazioni della totalità’ contenute nel dramma sofocleo. Nella Grecia arcaica, difatti, era divampato l’incontenibile fuoco orientale dell’ispirazione dionisiaca, già fatto oggetto di satira nello Ione platonico; ad esso si era contrapposta, nel prosieguo di tempo, la sensibilità attica, incline viceversa, nella sua straordinaria Darstel-lungsgabe, capacità di rappresentare, alla misura ed alla ‘sobrietà giunonica’. Essa aveva smorzato nelle tragedie di Sofocle, sottomesso al giogo della nuova filosofia socratica e platonica, il ‘sacro pathos’ originario, il ‘fuoco celeste’, con un eccesso di formalismo che filtrava il temibile raggio del dio gioiosissimo, di quel Dioniso che nell’elegia Brod und Wein Hölderlin osò affiancare a Cristo. Come scrisse Michel, «viene ripercorsa, nel testo di Hölderlin, la strada che la cultura ellenica dovette percorrere partendo da un’umanità orgiastico-passionale ed approdando alla riflessione, alla misura ed alla forma umana».

Prima di Nietzsche, Hölderlin avvertì, al di sotto della maschera di imperturbabile calma e bellezza dell’arte greca, il substrato represso delle potenze oscure, quell’Ungeheuer, quello ‘smisurato’ che era giunto nel tragico ad una sconvolgente epifania e al quale Hegel opponeva in quegli anni la forza risolutiva di ogni contraddizione propria della filosofia: con 1’Empedokles e le grandi traduzioni sofoclee, il poeta «scrive dei testi che restituiscono alla modernità la possibilità stessa del tragico » (Franco Rella). Hölderlin riteneva che la posizione dell’uomo moderno occidentale, venuto dopo il dominio di Dioniso e di Cristo, fosse tale da permettersi di aprire quelle chiuse che Sofocle e gli ateniesi del v secolo tenevano religiosamente sbarrate, e di abbandonarsi dunque all’estasi e allo sgomento fiammeggiante, orientale, del fuoco dionisiaco. Nietzsche avrebbe poi sostenuto, in patente sintonia col messaggio Hölderliniano, che il compito dei tedeschi, stigmatizzati nell’Hyperion per la loro piatta ‘orizzontalità’ mercantile, è quello di scoprire in sé il sud. »

E da “Holderlin e Sofocle O del tradurre speculativo” di Tomaso Cavallo:

«Il frutto più alto della meditazione hölderliniana è infatti l’acquisizione, conquistata contro Schiller, del carattere assolutamente non naif, non ingenuo, della cultura greca […]. Da Omero a Pindaro, da Esiodo ai tragici, i Greci fondano il loro “regno apollineo” su di un fondo dionisiaco. Il giovane Nietzsche […] è davvero un prosecutore di Hölderlin, allorché scava ben oltre la “facciata apollinea” della tragedia greca.»

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ANTIGONAE (1949)

Antigonae – Stage sketch by Helmut Jürgens, Munich 1951

Organico orchestrale:

6 flauti (3 con obbligo di ottavino); 6 oboi (3 con obbligo di corno inglese); 6 trombe con sordina; 4 arpe; 6 pianoforti con due esecutori ognuno (suonati con martelli di legno, bacchette, plettro e oggetti vari); 9 contrabbassi;

[Schlagwerk (dai 10 ai 15 esecutori)]

7 timpani, litofono, 3 xilofoni, 10 troughxilofoni (soprani, tenori, bassi), legno piccolo, 1 serie di percussioni ad aria africane, 2 campane, 3 glockenspiel, 4 paia di piatti antichi, 3 piatti sospesi turchi, piccola incudine, 3 triangoli, 2 grancasse, 6 tamburelli baschi, 6 paia di nacchere, 10 grandi gong giavanesi

Struttura drammaturgica:

Atto I: Prologo, Parodo, Primo episodio – Atto II: Primo stasimo, Secondo episodio – Atto III: Secondo stasimo, Terzo episodio, Terzo stasimo, una parte del Quarto episodio – Atto IV:  l’altra parte del Quarto episodio, Quarto stasimo, Quinto episodio – Atto V: Quinto stasimo, Esodo.

In antitesi al lavoro fatto da Strauss ed Hofmannsthal con Elektra, strada ritenuta ormai  ampiamente esaurita, Orff abbandona del tutto il sinfonismo tardoromantico e i pomposi wagnerismi adottando un organico in cui predominano le percussioni, intonate e non, pianoforti compresi, con sporadici interventi di strumenti melodici – usati perlopiù in accorpamenti timbrici. Tutto a forgiare una materia sonora in cui il ritmo e la ieraticità rituale possano uscire fuori in tutta la loro pregnanza. E donando alla partitura una omogeneità timbrica soffocante, ben adatta al clima tragico.

Singolare è anche lo stile vocale. Il compositore inventa, qui, una particolare tecnica denominata Singstimme che, come lo Sprechgesang, è uno stile di canto che si pone tra il parlato e il cantato. Nel caso specifico, si tratta di una declamazione scandita percussivamente delle sillabe del testo su una singola nota, che a volte può cambiare di ottava. Una repercussio la cui metrica è fluida, non regolare. Senza barre di battuta, segni specifici ne regolano il respiro.

Questa tecnica, naturalmente, non è utilizzata per tutta la durata del testo ma si alterna ad un salmodiare “gregoriano” con melismi e formule ricorrenti. La grande predominanza data al ritmo si accompagna ad una totale assenza di qualsivoglia contrappunto e ad una armonia scarnificata. La scrittura musicale è fatta di formule e gesti declamatori più che di temi, di pannelli, stilemi e formule melodico-ritmiche che si ripetono senza sviluppo alcuno in maniera ossessiva e compulsiva. Al di là di qualsiasi psicologismo o sentimentalismo. Si potrebbe pensare, in parte, ad una interessante anticipazione del minimalismo. Il confronto con Stravinskij e, soprattutto, con l’Oedipus Rex, poi, che in un punto è citato quasi letteralmente, è inevitabile: in Orff in primo piano è il testo, in Stravinskij il testo è una pura componente musicale in cui importa più il significante che il significato (in effetti è lo speaker a condurre l’azione). L’altra “ombra” molto presente in questa partitura è quella delle Nozze. In fondo Orff non fa altro che ampliarne e integrarne l’organico. Per non parlare della vocalità stentorea e pietrificata che avvicina molto i due lavori. L’attenzione per la scansione ritmico-metrica del testo avvicinano di più questa partitura alle origini, ossia al teatro antico (in una direzione che anticipa un poco l’approccio di Xenakis all’Orestea), ma il modello di Orff sembra essere più la ritualità ieratica e simbolica della sacra rappresentazione e dei misteri medievali che il dramma classico – di cui non so cosa e quanto si conoscesse di preciso all’epoca. Fino a qui tutto bene, non fosse per i troppi momenti, però, che rimandano infaustamente ai Burana, cioè alla dimensione profana e ludica, atmosfera assai poco consona alla tragedia greca, come irritanti strizzatine d’occhio al pubblico. Molto interessante in questa pièce, comunque, è l’attenzione alla qualità poetica del testo: la musica non funge mai da amplificatore psicologico dei versi e dell’azione, da elemento che modelli il carattere dei personaggi, che non sono mai ridotti a tipi psicologici come nel teatro borghese, ma serve a costruire la materia entro la quale le parole e i gesti vengono scolpiti, parole e gesti che si fanno ritmo e simbolo prima che altro. Uniche eccezioni di caratterizzazione sono nel personaggio di Emone che ha una vocalità con lievi curvature melodiche e in quello di Tiresia le cui linee vocali sono vagamente melismatiche.

Nell’insieme si può dire che una tale concezione drammaturgica regge fino ad un certo punto. Non mi pare che l’alta qualità poetica del testo possa, con una musica che non la faccia risaltare, tutta chiusa nella sua propria dimensione ossessiva, in assenza di una recitazione piena, tenere in piedi tutta la rappresentazione. Con una musica che appoggi il testo ma senza risaltarne la potenzialità poetica, anzi, abbandonandolo quasi a se stesso.

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OEDIPUS DER TYRANN (1959):

Oedipus – Stage photo, Prince Regent Theatre 1961

Organico orchestrale:

6 pianoforti (1-4 con due esecutori); 4 arpe; mandolino; celesta; glassarmonica; 9 contrabbassi; 6 flauti (anche ottavino, e due flauti contralto); 6 oboi; 6 tromboni; organo; 5-6 timpani;

[Schlagwerk (12-18 esecutori)]:

litofono, 2 xilofoni, marimbafono, 5-6 xilofoni tenore, 2 xilofoni bassi, 5 tamburi di legno di diverse dimensioni, grandi assi di legno, 2 bongo, 2 timbali, tomtom grande, 3 conga, 2 tamburi grandi, 3 tamburelli, castagnette, triangolo, sistro, piatti, cimbali, campane tubolari, 3 glockenspiel, metallofono, 3-5 tamtam di diverse dimensioni, 2 gong giavanesi

dietro la scena: 8 trombe, diversi tamtam grandi

Struttura drammatrgica:

Atto I: Prologo, parodo; Atto II: primo episodio, primo stasimo; Atto III: secondo episodio, secondo stasimo; Atto IV: terzo episodio, terzo stasimo, quarto episodio, quarto stasimo; Atto V: Esodo.

Secondo le intenzioni di Orff, l’antica tragedia attica avrebbe dovuto essere non musicata, bensì fatta risuonare dalle sue stesse forme linguistiche, avvertite nella loro sacralità originaria e senza che il minimo taglio sfidasse l’intangibilità medesima del dramma (Alberto Fassone). Complice, in questo, l’eccelsa musicalità del verso di Hölderlin, la sua visionaria traduzione come riconquista dell’antica tragedia alla sensibilità contemporanea.

Dal punto di vista armonico, anche in Oedipus, come nell’opera precedente, prevalgono strutture armoniche bimodali, spesso partendo da una stessa tonica – più che di tonalità sovrapposte, però, come certi passaggi potrebbero far pensare, parlerei piuttosto di blocchi politonali ancipiti (accordi di settima e di nona senza risoluzione, spesso sovrapposti a triadi perfette o ad accordi più stabili). Ma in questa partitura, di nuovo, c’è un riferimento costante al do maggiore: “il piano tonale, come irretito da un’invincibile forza di gravità, si rapprende intorno al do maggiore per quasi tutta la durata dell’opera; questo inconsueto ‘magnetismo’ armonico (in cui si può forse scorgere un riflesso della monomaniacale sete di conoscenza che assilla Edipo) è preservato da un’eccessiva uniformità in virtù di frequenti sovrapposizioni bitonali o bimodali, provocatoriamente irrelate fra loro.” (Elisabetta Fava, Dizionario dell’opera) Questa profonda dialettica di piani modali e tonali diversi mi richiama alla mente ciò che viene detto a proposito del lavoro traduttivo di Hölderlin da Franco Rella nella sua introduzione a “Edipo il Tiranno”: “La conciliazione tragica come la verità che emerge dal conflitto delle differenze, quella verità che Iperione aveva intuito nella parola di Eraclito prima, e nel detto di Sofocle poi. “Molte sono le cose terribili, ma la più terribile è l’uomo” (Antigone vv.332-333) […]. È l’uomo, infatti, che porta in sé lo spazio più smisurato, l’uomo che, nella sua capacità di gioia e di lutto, di sventura e di bellezza, di ragione e di passione, porta in sé la via che conduce alla verità del dissidio che tiene insieme, in una reciproca tensione, il diverso senza mai conciliarlo se non nella cesura, nell’intervallo tragico. […] È la parola che si apre allo spazio della nostra modernità, della nostra necessità di un sapere che possa comprendere in sé il diverso, il contraddittorio, ciò che è irrevocabilmente differente. Perché questo, il luogo del conflitto tragico, è l’interstizio da cui emerge ogni possibile: anche quello della parola che attraversando il dolore sia apra e ci apra alla gioia.” (Franco Rella)   

A dispetto d’un “instrumentarium” (così lo chiama Orff nella partitura) molto più nutrito, sia nelle percussioni in genere sia nelle tastiere, che prevedono, oltre ai soliti sei pianoforti e ai glockenspiel, la celesta e la glassarmonica, la musica di questa seconda opera è molto più asciutta e concentrata.  Specchio di questa scelta timbrica è la componente vocale di questa partitura, tanto più variegata quanto più austera, anche se con rari momenti d’inflessione quasi melodrammatica. La Singstimme, comunque, predomina di gran lunga, mescolandosi al parlato puro (ma sempre metricamente scandito) e creando una sorta di “cantillatio” in cui s’innestano i melismi e alcune formule e gesti melodici. Ci sono momenti, poi, di pura recitazione, accompagnata e non da sporadici e discreti interventi delle percussioni. Tutto nell’ottica di presentare sulla scena non dei personaggi ma delle figure statuarie, simboli del fato. Il linguaggio della tragedia s’incarna nella maschera che ne amplifica la voce: il linguaggio della tragedia, come la maschera che indossa l’attore, è ingrandimento e deformazione, segno che nell’abnorme tende alla propria verità.

A differenza dell’Antigonae sono pochi, qui, i riferimenti ai Burana -per fortuna- ma ancora una volta è citato l’Oedipus Rex di Stravinskij, non letteralmente ma semplicemente alluso. Questa volta si tratta di una citazione parallela: l’entrata di Giocasta; il celebre “oracula mentiantur”.

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PROMETHEUS (1968)

Prometheus – Stage photo of the first performance, stage sketch by Teo Otto, Stuttgart 1968

Organico orchestrale:

4 pianoforti (8 esecutori – anche con piatti, cimbali antichi, bacchette di legno e bacchette di timpani); 6 flauti; 6 oboi (anche corni inglesi); 6 trombe in do; 6 tromboni; 4 banjos tenori; 4 arpe; organo; organo elettronico; 9 contrabbassi

Schlagwerk (12-15 esecutori): 5 timpani; tamburo piccolo con corde; 3 tamburi baschi; 2 gran casse; o-daiko; taiko; 4 darabuka; 2 congas; litofono; 2 xilofoni; xilofono tenore; 2 marimbafoni; xilofono basso; campanelli; metallofono; campane tubolari; triangolo; piatti; piatti turchi; piatti cinesi; cimbali antichi; crotali; 3 tam-tam; 3 gong; campana di lastra; guiro; 5 blocchi di legno; 3 campane di legno; tamburo di legno africano; tavola di legno; barile di legno; tubi di bambù; 2 paia di hyoshigi; wasamba; bin sasara; 4 raganelle; angklung; bicchieri di vetro; macchina di vento; macchina di tuono

Struttura drammaturgica:

I: prologo, scena prima – II: prologo, scena seconda – III: parodo – IV: primo episodio, scena prima – V: primo episodio, scena seconda + primo stasimo – VI: secondo episodio + secondo stasimo – VII: terzo episodio, terzo stasimo –  VIII: esodo, scena prima – IX: esodo, scena seconda.

Con questo terzo pannello, Orff porta a pieno compimento la sua ricerca timbrico-espressiva sulla tragedia greca. Dopo i due testi di Sofocle, è la volta di quella che è considerata la quintessenza del tragico: il Prometeo incatenato (Προμηθεύς δεσμώτης) di Eschilo.

In assenza di una traduzione, né in tedesco né tantomeno in latino, che potesse eguagliare quella ‘esperica’ e speculativa di Hölderlin, Orff decide di mettere in musica direttamente il testo greco, affrontando tutti i numerosi problemi che la scelta comporta. Innanzitutto, prima ancora di quello della comprensione da parte del pubblico,  c’è il problema del rapporto metrico tra musica e versi. Scomparso il medium hölderliniano, la giuntura tra lo sprofondare nell’origine dionisiaca del testo e la possibilità di una com-prensione nella sensibilità moderna, ad Orff non sembrò opportuno un approccio puramente filologico, un tavola ritmica che riproponesse le costruzioni metriche dell’originale e decise di continuare il lavoro intrapreso nei primi due pannelli di modellare il suono come libera scaturigine del testo. Una musica di supporto al testo ma organizzata secondo proprie esigenze specifiche. Tanto più che i filologi consultati da Orff a proposito di questa questione avevano dato pareri discordanti. Certo un’interpretazione troppo libera, forse; che da una parte rispetta il testo ma dall’altra ne modifica molto la sonorità. Preservando, anche se solo in parte, il suono della lingua originaria, Orff ritenne necessario aggiungere una parte coreutica esplicativa, recuperando, in questo modo, un’altra componente essenziale del teatro antico, che finora Orff aveva restituito solo nella musica: il gesto e la danza.

Più s’infittisce la ricerca dell’archetipo, dell’essenza della tragedia, più l’instrumentarium si amplifica, soprattutto nella sezione delle percussioni; ed amplia il suo raggio geografico (considerando che quello del furto del fuoco è un mitologema che si ritrova in diverse culture nel mondo): in esso trovano spazio per la prima volta sul palcoscenico d’un’opera occidentale molti strumenti giapponessi, arabi ed africani. Senza considerare, poi, l’organo e le macchine per il vento e per i tuoni. Il tutto per dare corpo ad un’armonia che spazia dal cluster, sorta di urklang (suono primigenio), a liberi accordi dissonanti senza risoluzione, e strutture polimodali e politonali, in impasti sempre cangianti che seguono con estrema attenzione i significati e i significanti del testo.