IL LINGUAGGIO TEATRALE DI SERGEJ PROKOFEV FINO ALL’ANGELO DI FUOCO (E OLTRE) – appunti –

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Un Angelo di fuoco musicalmente ineccepibile, in questi giorni, al Teatro dell’Opera di Roma con un’orchestra in ottima forma e voci pienamente all’altezza d’una partitura così complessa e impegnativa (per non dire impervia). Peccato per la regia di Emma Dante che mi è apparsa un po’ sovraccarica e troppo sbilanciata sul versante mimico-parodistico.

IL GIOCATORE  [Op. 24 – (1915-16, rev. 1927)]

Lo sferzante motorismo e lo spericolato divisionismo ritmico, timbrico e armonico del primo Prokofev, si riflettono, qui, nel motivo del giuoco e, dunque, in quello del desiderio: un meccanismo inesorabile e perverso che, quando la libido diventa sintomo e riflesso d’una socialità malata, stritola fatalmente ogni mente e ogni animo. Come per altro si può ben leggere nel romanzo di Dostoevskij da cui è tratto il libretto. Con la sola e  inevitabile differenza che nel testo letterario la contestualizzazione sociale e politica è molto più presente e sviluppata.

L’icasticità caleidoscopica e quasi spasmodica di questo compositore è strabiliante. La musica sferza l’udito dell’ascoltatore dalla prima all’ultima nota, anche quando si fa meno densa e più profondamente lirica, provocando invisibili ferite. Ma da queste invisibili ferite scaturisce in chi ascolta, sorprendentemente, non un moto di ribrezzo o repulsione bensì una completa comprensione dell’afflato drammaturgico dell’opera stessa. Anche se l’ascolto viene sballottato di qua e di là da una miriade di cellule motiviche che di continuo nascono, spariscono e poi ritornano senza sviluppo alcuno, continuamente rismembrate, la forte coesione stilistica, teatrale e poetica è sempre ben evidente. Anche se lo stile declamato e recitativo rompe di continuo la linea del canto essa dà pieno corpo al gesto e all’azione e dal gesto e dall’azione riceve la sua sostanza lirica – facendo tranquillamente a meno della melodia spianata. Il miracolo di Prokofev è proprio questo: ottenere una totalità lirica e poetica da un continuo frantumarsi e divergere degli elementi musicali.

L’AMORE DELLE TRE MELARANCE [Op. 33 – (1919)]

In quest’opera l’affascinante antinaturalismo di Gozzi – Mejerchol’d trova pieno compimento musicale. Così come il testo e l’apparato scenico, l’orchestra è una dissennata fucina d’invenzioni timbriche, ritmiche e metriche che, in un flusso continuo, schizzano via subito o si coagulano per un attimo in un punto. Rispetto al solido realismo del Giocatore, in questo nuovo lavoro, complice il clima fiabesco del libretto, la linea del canto si screzia maggiormente d’inflessioni melodiche: è come un procedere per frammenti di melodie appena accennate dal canto che subito trascolorano nel recitativo e che, sempre in strettissima aderenza al testo, al personaggio e all’azione, subitaneamente si avvicendano l’una all’altra. L’orchestra, supportata da un’inventiva timbrico-ritmica abnorme, accompagna questo trascolorare continuo con formule caleidoscopiche (scale cromatiche o per toni, terzinati e arpeggi d’ogni tipo, etc. etc.). Il tutto in una concezione del suono come gesto, o meglio concrezione gestuale, organicamente disorganizzato.

L’unità profonda di questa musica è, dunque, una fortissima tensione all’eterogeneo, un movimento e flusso continuo che non permette ad alcun elemento di consistere. Un galoppare precipitoso verso il nulla che ha del demoniaco. [Una dialettica satanica (s’atan, secondo l’etimo, è infatti “colui che si oppone”), appunto, in cui ogni elemento si contrappone all’altro in rapida successione, annullandosi.]

LA STORIA DEL BUFFONE  CHE NE MISTIFICA ALTRI SETTE [Op.21 – (1915-1920)]

La qualità mimica e gestuale, dunque espressiva, dell’orchestra di Prokofe’v è strabiliante: tutto il lucido fauvismo di Stravinskij con in più un’esuberanza esplosiva che è impareggiabile.

L’ANGELO DI FUOCO [Op.37 – (1919-27)]

Un’opera folle, dalla densità magmatica assoluta che rivela nella maniera più evidente possibile la genialità di Prokofiev come orchestratore. Le frasi musicali, molto spesso, vengono spezzettate e quasi sminuzzate; segmentate e distribuite in più strumenti, formando un mobile caleidoscopio che in molti punti potrebbe ricordare Strauss, non fosse così spigoloso. Certo non si tratta d’un trascolorare, e armonico e coloristico, ma di vere e proprie diffrazioni timbriche, come se i temi passassero all’interno di un prisma e venissero sempre proiettati in avanti, intarsiati in un minio precisissimo e in un geometrico mosaico di colori.

“Plus que jamais, Prokofiev a fait preuve dans cette partition d’une très grande habileté orchestrale. La richesse instrumentale et une prosodie où la voix est traitée comme un instrument posent de délicats problèmes d’exécution, car les chanteurs risquent fort d’être couverts par l’accompagnement.” (Claude Samuel, Prokofiev – Éditions du seuil, Bourges 1960).

[Più che mai, Prokofev ha dato prova in questa partitura d’una grandissima abilità orchestrale. La ricchezza strumentale e una prosodia in cui la voce è trattata come uno strumento pongono dei delicati problemi d’esecuzione, in quanto i cantanti rischiano fortemente d’essere coperti dall’accompagnamento.]

Come novità rispetto ai lavori precedenti, da questo complesso coacervo di materiali eterogenei emergono dei veri e propri motivi conduttori e in più punti la voce si abbandona a degli slanci melodici. Altre volte questi slanci sono nelle parti orchestrali ed è la voce ad adagiarvisi, a tratti. Il tutto, comunque, è immerso in un baluginio di allucinazioni timbriche che ancora oggi risultano sconcertanti.

L’Ange de feu marque une autre étape dans l’œuvre de Prokofiev: les procédés de développement symphonique sont fortement compliqués, grâce à l’utilisation de toute une série de leitmotive d’une relief extraordinaire. (I. Nestiev, Prokofiev (traduction de Rotislav Hofmann) – Éditions du chêne, Paris 1946)

[L’Angelo di fuoco segna una tappa decisiva nell’opera di Prokofev: i procedimenti di sviluppo sinfonico sono molto complessi, grazie all’uso di tutta una serie di motivi conduttori di straordinario rilievo.]

Anche qui la forma si piega alla volontà d’esprimere più colla forgia timbrica che con una tornita dialettica dei materiali (che pure è presente ma molto più nascosta, sempre in tralice). Insomma, la scrittura di Prokofiev è sempre inquieta e perturbante e questa inquietudine si rapprende spesso in una sorta di dissidio nei confronti della forma sinfonica, anzi, direi proprio con la materia sinfonica. Le asprezze timbriche e armoniche, gli attriti polifonici e polimodali, la complessità della costruzione e i ritmi vorticosi, sono tutti elementi già noti al teatro di Prokofev  ma qui il puro piacere della provocazione modernista è sfrondato di tutti gli elementi più esteriori ed è, anzi, sostituito da un unico intento: quello di esaltare l’enorme carica perturbante della vicenda, la sua doppiezza lacerante.

Rispetto al Giocatore e alle Tre Melarance quest’opera è decisamente meno caotica. È come se cercasse di mantenere una propria purezza. Certo però che si tratta d’una purezza ambigua e la duplicità è uno dei temi portanti di tutta l’opera, un tema che si gioca su tutti i livelli dello spettacolo. Fra i tanti possibili, ecco un esempio di questa duplicità (che è anche un raro se non unico esempio di armatura di chiave in questa partitura): nel terzo atto, quando Ruprecht va a sfidare Heinrich e Renata, rimasta sola,  ribadisce di non riconoscere più Madiel nell’uomo che credeva di amare follemente e invoca disperata il suo Angelo di fuoco (Madiel’, Madiel’!/ Salvami, guardami,/ apparimi, rafforzami,/ apparimi,/ come mi apparivi nell’infanzia!/ Madiel’! Madiel!), nella partitura compaiono improvvisamente, senza alcuna modulazione, tre bemolli in chiave. Sembrerebbe trattarsi, dunque, d’una subitanea visione mistica, giustamente in mi bemolle maggiore, la tonalità del sacro, della trinità, ma immediatamente si aggiungono anche sol bemolle e re bemolle che ci riportano invece a si bemolle minore (o re bemolle maggiore), tonalità “profana”. Il tempo di far scorrere poche battute e, così come sono apparse, queste alterazioni scompaiono riconfermando altrettanto repentinamente l’armonia di mi bemolle. Poche altre battute ancora e dopo più nulla: l’estasi viene interrotta. Niente c’è mai di sicuro in queste apparizioni: esistono in una qualche realtà effettiva o sono solo frutto d’una immaginazione malata? Sono entità positive o negative? Tutto viene lasciato irrisolto.

Fatto sta che questo capolavoro segna un passo decisivo nella ricerca linguistica di Prokofev, il quale era ormai prontamente deciso a recuperare, attraverso il teatro, un rapporto meno conflittuale e più proficuo non solo con la tradizione musicale in genere ma anche, e soprattutto, con il proprio paese e i suoi ideali; alla ricerca d’un’affermazione artistica ancor più piena. Al di là dell’Angelo di fuoco, però, si preparerà per Prokofev l’insidioso smottamento verso una china inesorabile che dal Semyon Kotko lo porterà alla sua opera più conformista e inquadrata nei dettami del partito: la Storia di un vero uomo.

Massimo Mila nella sua Breve storia della musica spiega molto bene la svolta poetica che Prokofev compie con questo lavoro:

Col tempo si rese chiaro che l’aggressivo modernismo del giovane Prokof’ev e il suo irriverente antiromanticismo altro non erano che un’estrema manifestazione di spirito romantico. Ma quando il compositore cominciò a spogliare il proprio linguaggio dalle più esteriori apparenze polemiche, parve una trasformazione radicale e fu facile attribuirla […] al suo rientro nella patria sovietica. In realtà anche nel periodo giovanile del più spinto avanguardismo, le innovazioni di Prokof’ev consistevano principalmente nella moltiplicazione degli incontri dissonanti, senza che tuttavia mai venissero realmente compromesse le basi della tonalità. Anzi, questa veniva presupposta come un postulato indispensabile, affinché le accumulate dissonanze potessero essere sentite realmente come sfrontate violazioni di un ordine tradizionale, e non come conseguenze della sostituzione di un nuovo sistema non tonale. In altri termini, il modernismo di Prokof’ev si manifestava pur sempre nella direzione ottocentesca di arricchimento, estensione e approfondimento dell’armonia, non in quella, ben altrimenti insidiosa, del nuovo secolo, che semplicemente elimina i concetti stessi di consonanza e dissonanza attraverso l’instauramento di nuovi ordinamenti dei suoni.

Sopra questa fondamentale fedeltà di Prokof’ev alla concezione tonale si venne a innestare, prima del suo rientro in patria, un processo di chiarificazione e pacificazione interiore, che rimane inosservato perché fu consegnato principalmente nell’Angelo di fuoco. Soltanto dopo la sua rappresentazione postuma (Venezia, 1955) quest’opera si è rivelata non solo come il capolavoro teatrale di Prokof’ev, ma come la chiave di volta della sua arte. Qui si concreta il passaggio dalla frenesia della modernità a quel realismo romantico che in seguito si affermerà come il clima costante della musica di Prokof’ev.

SEMYON KOTKO [Op.81 – (1939)]

Prima opera del ritorno in Russia, nata nella triste epoca delle polemiche staliniste sul formalismo di fronte alle quali la Lady Macbeth di Shostakovich aveva appena dovuto piegare il capo, Semyon Kotko mostra un linguaggio decisamente più semplice e più tradizionale rispetto alle precedenti prove operistiche. Abbandonando definitivamente il divisionismo estremo e il motorismo ritmico sfrenato e con l’intenzione di scrivere un’opera russa su soggetto storico e patrio come Mussorgskij ai tempi del Boris, Prokofev accetta così, di buon grado, la sfida d’una musica più vicina al pubblico (e alle direttive del partito). Non per questo però s’arrende allo schematismo d’un’arte ridotta ad una sequela di canzoni, danze e coretti edificanti e al bozzettismo di figurine esemplari e graniticamente scolpite nella retorica patriottica e populista. Pur nella volontà di avvicinarsi ad un numero di persone più ampio possibile, Prokofev non vuole comunque rinunciare ad un progetto musicale di spessore e qualità poetica: tenta dunque un compromesso tra sperimentazione (o raffinatezza) e popolarità. Un compromesso che però scontentò un po’ tutti, tant’è che l’opera scomparì presto dalle scene.

In questo lavoro il linguaggio armonico è decisamente piano ma non totalmente appiattito: Prokofev alterna il tonalismo più tradizionale a passi un po’ più elaborati, passaggi consonanti a passaggi più aspri e irrisolti, in corrispondenza di precise esigenze drammatiche; la melodia, mai banale e scontata, volgarmente orecchiabile, carezza le orecchie dell’ascoltatore senza lasciarsi però prendere completamente, richiamandole sempre ad un nuovo ascolto, per una più efficace comprensione; l’orchestrazione, infine, pur compatta è sempre ricercata nell’ottenere gli impasti timbrici scenicamente più efficaci. Il montaggio delle scene, poi, ha un sapore cinematografico e va di pari passo con l’alternarsi di situazioni in cui il canto è più tornito e conchiuso con altre in cui la melodia è più libera di compenetrarsi con la prosodia, il recitativo e il recitato, in un clima in cui, comunque, l’azione sula scena non si ferma mai. Ma tutto ciò non basta a bilanciare il deciso passo (o balzo) indietro fatto da Prokofev.

MATRIMONIO AL CONVENTO [Op.86 – (1940-43)]

Come scrive Sergio Sablich, Semyon Kotko “era piaciuto a chi in esso vedeva gli echi di un’espressività rivoluzionaria preformalista, ma al contempo aveva attirato le critiche di chi, dopo l’anatema di Zdanov del 1936 contro la caotica musica occidentalizzante e borghese degli anni Venti, si era appiattito su di uno stile di regime accademico e lontano da qualsiasi “pericolosa” alzata di testa. Fatto sta, che Semèn Kotko sparì repentinamente dalla scena dei teatri sovietici. Non che l’opera fosse un capolavoro assoluto, specialmente se guardiamo a quanto già fatto da Prokof’ev negli anni precedenti, e cioè L’amore delle tre melarance del 1919, e L’angelo di fuoco del 1927, però la cosa dispiacque al musicista, e lo disorientò per quanto riguarda il filone poetico a cui rivolgersi per una nuova creazione. Attenersi agli ordini del partito non gli era artisticamente possibile, ma non era neanche possibile rischiare troppo; occorreva quindi trovare una via d’uscita”.

A dispetto di pochi leitmotiv, intensi ma discreti, molti sono i gustosi passaggi musicali di trasporto amoroso e di frizzante commedia; pur nell’esuberanza dei ritmi, nell’inquietudine armonica, nel cangiare continuo dei timbri siamo ben lontani dagli esperimenti spericolati delle prime opere: le strutture armoniche di questa partitura non arrivano mai ad un punto di complessità tale da sciogliere troppo i riferimenti tonali, il trascolorare timbrico, pur vivace, non arriva mai a strappare il tessuto musicale, a diffrangerlo, ed il canto, infine, pur variando nelle inflessioni del canto pieno, della prosodia e della conversazione musicale, non si allontana mai dalla melodia. Siamo piuttosto, qui, ad una via di mezzo tra il rocambolesco fabulistico ed il realismo satirico del primo Prokofev e la nuova linea del cosiddetto “realismo romantico”, che ha dato tra i suoi massimi frutti (o tra i più celebri) il balletto Romeo e Giulietta.

La verve, la forza drammatica, la vivacità, l’esuberanza, l’estro e l’inventiva sono quelli soliti di Prokofev ma passati nello stretto setaccio del lirismo; passati al setaccio d’una medietas tutta a favore del teatro. Non si tratta però di un canto spiegato che tende a chiudersi e a chiudere le scene in se stesse, come entità separate, ma di melos come eros, spinta propulsiva che ha radice e fine nell’azione teatrale, nella vis scaenica, nel gesto; melos come movimento continuo.

IL FIGLIUOL PRODIGO  [Op.46 (1928)]

 “Eleganti ma piuttosto epidermiche movenze”, queste sono le parole di Armando Gentilucci, come sempre assai calzanti. Credo che questo sia uno degli esempi più poveri del realismo romantico di Prokofev che, sempre nell’ambito del balletto, darà in seguito ben altri risultati.

Il linguaggio mi sembra non avere una fisionomia definita: c’è sempre una sorta di ottundimento formale.

GUERRA E PACE [Op.91 (1941–43)]

Opera mastodontica in cui l’usuale ricchezza timbrica e armonica di Prokofev diventa pletorica, ridondante, quasi esornativa, come pure pletorica è la prorompente esuberanza melodica. Comunque, neanche l’epica più tronfia sarebbe capace di smorzare la fantasia e l’ironia arguta di Prokofev, le sue infinite capacità espressive. Anche se tutto grandiosamente (pomposamente?) amplificato. Neanche l’uso un po’ pedissequo e ai limiti del didascalico del leitmotiv e del descrittivismo sinfonico.

Nell’ambito operistico credo sia la massima espressione della seconda fase di Prokofev, quella del cosiddetto realismo romantico.

La corposa esperienza fatta nell’ambito della musica per film lo ha aiutato di gran lunga nell’elaborare un progetto operistico capace di unire la qualità dell’inventiva e della struttura musicale, la qualità poetica, alla devozione per la propria terra patria, per la sua storia e per il suo popolo. È pur vero, però, che siamo ad un passo dal disastro di “Storia di un vero uomo”: l’opera più brutta di Prokofev in assoluto.

Certo è che con questo lavoro risulta chiaro come le convenzioni del teatro lirico stanno strette al suo nuovo realismo epico-romantico, un linguaggio in cui le ricerca e la sperimentazione stilistica (lirica, timbrica, armonica e formale), mai in effetti abbandonate, sono sempre finalizzate alla massima espressività comunicativa – abbandonando la forse eccessiva astrusità delle prime prove teatrali.

Le musiche per Ivan il Terribile mostrano, invece, quanto l’estetica del cinema sia ben più adatta alle qualità cinetiche della musica di Prokofev. Il Nevskij e l’Ivan costituiscono un dittico di capolavori, tra le cose migliori di tutto Prokofev.

Roberto Nespola