DAVID LYNCH E IL RIZOMA

David Lynch e il rizoma

(Un esempio d’oltre- visivo: Eraserhead, Lost Highways, Mulholland Drive, INLAND EMPIRE)

 

La “chiave di lettura” di questi film sembra essere l’assurdo, l’incoerente d’una dimensione altra scaturita dalla realtà stessa; dall’impossibilità della realtà (ossia di ciò che l’uomo esperisce coi sensi e con la mente), a chiudersi in un cerchio di senso al cui centro abitare.

Da questo punto di vista, i dialoghi sono la spia d’una tendenza a far trascolorare l’assurdo nel cortocircuito col razionale in modo tale da far risaltare all’ennesima potenza l’alterità dell’incongruo. Infatti, se in Eraserhead i dialoghi sono quasi del tutto incoerenti, soprattutto quelli in ambito familiare, in film onirico- analitici quali Mulholland Drive, Lost Highways o INLAND EMPIRE, la coerenza dei dialoghi è lo specchio della coerenza delle scene isolatamente considerate e prisma dell’enigmatica incoerenza delle relazioni tra le situazioni complessivamente intese.

Insomma, le sequenze di ognuno di questi film sembrano frammenti conchiusi che, dal punto di vista narrativo, sono perfettamente funzionanti. Essi rimandano, però, ad una narrazione impossibile da decifrare e da ricostruire, nel suo complesso, in sequenze logiche e lineari; frammenti di cui si percepisce intuitivamente il senso ma che sembrano mancare d’un chiaro referente unitario; rimandano ad un assurdo.

Appoggiandomi al dizionario etimologico del Devoto[1], intendo qui con assurdo proprio quel sussurro dissonante al quale siamo sordi o che, perlomeno, tentiamo di sciogliere nel silenzio dell’abitudinario e del senso comune. Credo sia proprio questo bisbiglio che scaturisce da ogni minimo interstizio della normalità, ciò che Lynch vuole “mettere in scena”; di quella normalità che faticosamente ci costruiamo intorno per poter vivere in equilibrio tra noi stessi e l’altro.

Si tratta per certi versi, di scatole ermeticamente chiuse contenenti meccanismi delicati e sofisticati che danno uno sgradevole e perturbante sentore di mistificato, si tratta di scatole in cui gli stessi attori e gli stessi personaggi sembrano talvolta non sentirsi a proprio agio ma mistificare filmando e prendere parte attiva alla mistificazione essendo spettatori chiamati in causa nel processo di significazione, potrebbe essere proprio l’equivalente dell’avvicinamento dello sguardo alla parte straniante d’un quotidiano liberato dal sé.

Si tratta a volte d’un eccessivo compiacimento nel generare e nel mostrare le slabbrature diegetiche, il vorticare della storia su ed in sé stessa fino all’indefinibile; fino al tentativo di far coincidere la rappresentazione (ossia la finzione come fallace impressione che sempre tutto quadri, che la catena di causa- effetto sia sempre lineare e consequenziale) colla sua impossibilità (la realtà e la verità nella sua essenza sfuggente e polimorfa); un eccessivo compiacimento nell’aggiungere e moltiplicare esponenzialmente, scena per scena, i simboli ed i piani di lettura.

Un compiacimento che, spesso e volentieri, risuona e rimbomba come fine a sé stesso, come gioco e giogo ridondante della virtualità che diffrange ogni storia nel nicciano sbriciolarsi dei fatti in una miriade potenzialmente infinita d’interpretazioni. Un compiacimento però, che non manca assolutamente di fascino poiché chiama in causa lo spettatore come parte attiva della costruzione di un senso, poiché, in questo modo, ogni occhio può generare un senso sempre diverso, una storia sempre diversa, poiché, in questo modo, ogni nuova visione del film può generare reazioni narrative e rappresentazioni diverse di significanza. Lo spettatore libera così, il proprio sguardo e smette i panni del mero fruitore che deve essere illuminato da chissà quale eccelso, univoco messaggio, da chissà quale essenziale e concreta epifania. Se l’epifania si genera, se negli occhi dello spettatore comincia ad esistere un dire ed un dirsi delle visioni che s’ingolfano l’una sull’altra, ciò non può essere niente di (completamente) rappresentabile, niente di razionalmente analizzabile. Se le immagini riescono a far presa, esse agiranno nella mente di chi vi è penetrato molto in profondità; genereranno fertili cortocircuiti ben oltre ogni possibilità di logica concettualizzazione.

 

Roberto Nespola

 

 

[1] assurdo, dal latino absurdus ‘dissonante’, derivato della radice swer.

-sussurro, […] dalla radice swer , attestata da un verbo norminale nell’area indiana […].

-sordo, latino surdus, probabilmente tratto da (ab)surdus ‘discordante’ per indicare la monotonia propria del sordo, nel doppio senso di ‘ciò che non ode’ e di ‘ ciò che non si fa udire.